Una autobiografia concepita per nascondersi meglio

C’è un capitolo di Underworld, romanzo-epopea di Don DeLillo, in cui i lettori sono invitati ad assistere a una singolare proiezione. Nella sala gremita del Radio City Music Hall di New York, sotto gli occhi ammirati dell’artista e pittrice Klara Sax, sfilano le immagini meticolosamente restaurate di Unterwelt, un leggendario, perduto film di Sergej Ejzenstejn. Klara, che ignora buona parte delle vicissitudini biografiche del regista russo, si limita a immaginarlo all’epoca delle riprese in Germania con il suo «testone rotondo, gli arti un po’ rachitici» e i ciuffi di capelli «da clown» sul capo, mentre scambia «pettegolezzi hollywoodiani» coi travestiti, in qualche bettola della «Berlino bisessuale». A commuoverla e conquistarla, scena dopo scena, è piuttosto la sua pellicola: quello strano, oscuro e pesante insieme di immagini, senza trama, spesso contraddittorio e «difficile da seguire», riesce a stamparsi nella mente della spettatrice, grazie ai suoi «eccessi di formalismo» e al suo «metodo di caratterizzazione immediata», come il disegno di un tessuto.

Grandi margini di manovra
Chi cercasse di recuperare notizie su Unterwelt e sul suo metodo di composizione nelle Memuary di Sergej Ejzenstejn – da poco ripubblicate sotto il titolo Memorie. La mia arte nella vita (a cura di Ornella Calvarese, Marsilio, pp. 716, 38 euro) – rimarrebbe tuttavia spiazzato, dal momento che il film, frutto del genio visionario di DeLillo, appartiene appunto al territorio della finzione. Le ricerche di un inconsapevole lettore, ciononostante, non risulterebbero del tutto fuori luogo o sprovviste di logica. E non solo perché questa nuova edizione italiana si impegna a tradurre l’intera compagine dell’impresa autobiografica, ma anche perché le Memuary rappresenterebbero l’itinerario privilegiato per conoscere e riportare alla luce informazioni, tecniche, strategie di montaggio, segreti e aneddoti sul mestiere del regista e sulla gestazione delle sue opere: sarebbe insomma tra le loro pagine che – stando a quanto lo stesso Ejzenstejn si affretta a prometterci fin dall’introduzione – i lettori potrebbero scoprire «come si diventa Ejzenstejn».
Cominciate nel 1946, e interrotte dopo due anni di lavoro febbrile, quando Ejzenstejn venne stroncato da un attacco cardiaco, le Memuary si rifanno a una nobile e antica tradizione. Il loro genere letterario – diceva Paul Verlaine ancora nel 1886 – costituisce un raccoglitore «elastico», vasto, onnicomprensivo, dove chi dice io, proponendosi come imparziale testimone e ritrattista di un’intera epoca, ha l’occasione di riversare «di tutto e di più», e di scrivere, come ricorderà in seguito anche Virginia Woolf, in «un’enorme quantità di modi». Ed è proprio grazie a questa provvidenziale ampiezza di margini di manovra se Ejzenstejn potrà servirsi di un peculiare sistema narrativo, che gli consentirà di spingersi «a fondo» e di raccontarci in maniera esaustiva i retroscena della sua carriera.
A questo scopo, le Memuary ci portano a curiosare nei meandri del passato del cineasta, a «girovagare» – con agio e senza meta prestabilita – nell’universo dei suoi ricordi, secondo il metodo (di derivazione freudiana) delle «libere associazioni» formulato sulla soglia del testo: «iniziando una pagina, un paragrafo, o persino una frase, non so dove mi porterà il seguito. Lascio che il ‘materiale’ emerga dalle ‘profondità’ del mio bagaglio personale, che le testimonianze dei ‘fatti’ provengano dall’esperienza personale», senza soluzione di continuità.
C’è allora il pericolo che il racconto, pronto ad accatastare nel deposito della pagina autobiografica un ammasso eterogeneo e inesauribile di ricordi in libera espansione, non costituisca – come vorrebbe Ejzenstejn – un «avvincente e avventuroso viaggio», bensì un libro forse prolisso, aperto alle molteplici vie di fuga di una interminabile catena di digressioni analogiche. Un libro, per certi versi, anche «immorale»: ma non certo perché – come torna a garantirci l’introduzione – si diletta nel confessare particolari piccanti, sul modello delle (auto)biografie del jet set hollywoodiano; quanto in virtù del fatto che all’interno delle Memuary non esiste alcun dispositivo capace di attenuare il narcisismo dell’io, e di abolire in qualche modo il suo atteggiamento più provocatorio: la posa di chi, esaudendo la propria innata vocazione didattica, non esita a proporsi agli occhi dei lettori come un maestro leggendario, e assieme al suo passato di trionfi, lotte, geniali creazioni e prestigiosi incontri, non smette di rimirarsi compiaciuto per pagine e pagine in uno specchio autobiografico di cui è il solo a determinare i principi di riflessione e funzionamento.

Nei meandri di una vita
Può anche darsi che, per giunta, la lezione del maestro generi un’ardua sovrapposizione degli elementi biografici, e proprio come accadeva con l’immaginario Unterwelt, finisca per rivelarsi troppo «difficile da seguire». Sappiamo che Sergej Ejzenstejn, nato a Riga nel 1898, cominciò a prestare servizio come aiuto-regista al teatro d’avanguardia Proletkul’t, sotto la guida del maestro Mejerchol’d, dopo aver partecipato alla Rivoluzione russa militando nelle file dell’Armata Rossa. Il suo esordio alla regia cinematografica avvenne con Sciopero (1925); ma a renderlo famoso in tutto il mondo fu La corazzata Potëmkin (1926) che narra un episodio di ammutinamento occorso durante i moti rivoluzionari del 1905. Quando i film successivi – Ottobre dedicato alla Rivoluzione del ’17, e Il vecchio e il nuovo, sulla situazione delle campagne, vennero osteggiati dalla critica di regime per una supposta mancanza di partecipazione ideologica, e per eccesso di sperimentalismo formale, Ejzenstejn decise di accettare incarichi in Europa e a Hollywood. Ricevuto con entusiastica devozione, girò in Messico buona parte di un film storico-documentario – Que viva Mexico! – che tuttavia, a causa di una incomprensione contrattuale all’inizio del 1932, non venne mai concluso.

L’accusa di leso realismo
Una volta tornato in Unione Sovietica, Ejzenstejn continuò, del resto, a subire fino alla morte soprusi e persecuzioni: alternò epopee registiche di grande successo sulla storia russa – come Alexandr Nevskij e la prima parte di Ivan il Terribile – a collaborazioni di servizio, come la messa in scena della Valchiria di Wagner, nel 1940, al teatro Bol’soj, ma anche a pellicole, come l’incompiuto Prato di Bezin , ispirato a Turgenev, e La congiura dei Boiardi, seconda parte dell’epopea sullo Zar Ivan. Film, questi, tutti poco graditi al partito, pronti a suscitare i malumori di Stalin e dei responsabili del cinema sovietico, che non esitarono a condannarli, o a distruggerli con l’accusa di «leso realismo».
C’è da ammettere, però, che il lettore privo di questa basilare griglia di coordinate biografiche (reperibili sul Dizionario universale del cinema), quando entra a contatto coi Memuary corre il pericolo di smarrirsi, e di precipitare in un labirinto di evocazioni che si susseguono l’una all’altra senza fornire l’utile bussola della successione cronologica. È vero che Ejzenstejn mette a nostra disposizione il sottile filo d’Arianna dell’analogia, mediante il quale potremmo pur sempre riguadagnare una via d’uscita. Dal suo racconto manca in ogni caso il suspense, disinnescato da una struttura che vagabonda di ricordo in ricordo e sembra dilettarsi nella libera combinazione di avvenimenti, idee, visioni, incontri, realizzazioni, progetti. E per quante inaspettate «scoperte» Ejzenstejn ci assicuri, ad attenderci troveremo l’affascinante caos di una narrazione dove qualsiasi gerarchia tematica risulta abolita, e dove reminiscenze personali – come un ramo di ciliegio o di lillà, un carciofo, un negozio di giocattoli – finiscono sullo stesso piano degli insegnamenti di Mejerchol’d, delle preziose note relative alle riprese di Potëmkin o di Ottobre, delle riflessioni sulla tecnica dei formalisti russi, o degli incontri fra il regista e Stefan Zweig, Pirandello, Greta Garbo, o Charlie Chaplin.
La scommessa – si difende ad ogni modo Ejzenstejn – è un’altra. Non si tratta di ordinare i materiali della vita e di costruire una storia che tenga sulle spine l’uditorio. Si tratta semmai di riprodurre sulla carta un’enorme congerie di pensieri, altrimenti destinata a dissolversi con la morte del regista: bisogna smontare il passato, farlo scorrere sulla pagina utilizzando e alternando le tecniche narrative (primi piani, sequenze, campi lunghi o anche semplici fotogrammi) già sperimentate in campo cinematografico. Per poi ricercare le radici di un destino d’artista nell’infanzia dell’io, e nel suo rapporto col padre – un architetto di Riga, divenuto in seguito consigliere di stato – in base al modello appreso sui testi della psicoanalisi (in particolare fra le pagine di Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, terminato da Freud nel 1910 e studiato da Ejzenstejn durante l’adolescenza).

Non tutto è svelato
Ma come non accorgersi, a questo punto, degli svariati e ingegnosi trabocchetti che un simile circuito autobiografico è pronto a far scattare sotto i nostri passi? A cominciare dall’adozione dello stesso metodo «freudiano». Eleggendolo, Ejzenstejn ci chiede di trasformarci in psicoanalisti, di situarci alle spalle dell’autobiografo sdraiato su un ideale lettino, e di ascoltarlo – come insegnava Freud – con «attenzione fluttuante», mentre snocciola uno dopo l’altro tutti i ricordi e le osservazioni che gli passano per la mente. Ci chiede inoltre di dimenticarci che, una volta assunto un simile ruolo, rimarremo comunque in una situazione di svantaggio nei confronti dello scrittore analizzato; e di trascurare dunque il fatto che rispetto allo psicoanalista noi lettori di autobiografie non potremo dialogare concretamente con chi dice io tra le righe del testo, non avremo modo di ricondurlo sui suoi passi per far scattare lapsus o contraddizioni rivelatrici, e saremo invece obbligati ad adeguarci a un flusso narrativo imposto con implacabile, coercitiva autorevolezza.
Un flusso di pensieri che, se non bastasse, non serve a chiarire l’arcano della creazione artistica, ma arretra di fronte ai suoi nuclei più incandescenti o ne infittisce i misteri. Ejzenstejn, infatti, non ci racconta «tutto»: con una abile strategia di aggiramento, si preoccupa invece di allontanare dalla sonda investigativa della scrittura autobiografica ogni richiamo a quella sfera sessuale in cui Freud – proprio nel Leonardo – aveva ricercato la radice del genio. E quando poi si decide a inquadrare gli oggetti del passato, e a mettere a fuoco i processi creativi, fa ricorso ai metodi di indagine di quella stessa psicoanalisi che – come ha ricordato Lavagetto, in Freud la letteratura e altro – aveva in fin dei conti ammesso di non riuscire a spiegare «né il genio di un autore (il suo ‘dono meraviglioso’), né i mezzi e le tecniche con cui vengono realizzate le opere d’arte».

Quel che disse Sklovski
Non c’è allora da sorprendersi se, a lungo andare, saranno proprio le meticolose spiegazioni tecniche dei Memuary, determinate a farci penetrare nei segreti del metodo di montaggio, che finiscono per confondere le piste, e per complicare sorprendentemente la nostra ricognizione: «lo sapete o no – replica beffardamente Ejzenstejn – che il modo più sicuro per nascondere è di rivelare fino in fondo?!». Come se l’autobiografia costituisse un velo di sillabe, parole, frasi con cui Ejzenstejn/Narciso, intento a ordire una strategia di protezione della propria immagine, occulta, confonde e ricopre il riflesso dello specchio, in onore alla convinzione – già formulata da Nietzsche – che «parlare molto di sé può anche essere un mezzo per nascondersi».
Ecco «l’immoralità» che ci era stata preannunciata: quella di un percorso autobiografico che non serve a nessun altro che al suo autore, e che ci rende, a tutti gli effetti, girovaghi, perdigiorno, flâneurs nel prodigioso, vulcanico groviglio della mente di un genio. Sta a noi, a questo punto, saperci destreggiare tra le contraddizioni sistematiche pronte ad animare e sostenere – come ha detto una volta Viktor Sklovskij – il complesso del suo pensiero: la figura di Ejzenstejn – continua Sklovskij in Sua Mestà Ejzenstejn, biografia di un protagonista – non si può né rifiutare né accettare in blocco. Non si aspettava, né desiderava, che si fosse d’accordo con lui. Voleva che si pensasse con lui. Camminava conversando in mezzo a una folla che non lo capiva pienamente, ma finirà per comprenderlo».