Un voto di Classe

(articolo che Liberazione dovrebbe pubblicare domani, 4 giugno 2005)

Il doppio verdetto referendario di Francia e Olanda, caduto come un macigno su Bruxelles e che sembra preludere ad ulteriori più che probabili rovesci, riveste un valore politico di assoluto rilievo.
Diciamo che esso, innanzitutto, dovrebbe essere rispettosamente recepito in quanto espressione della volontà popolare. Da questo punto di vista, appare del tutto fuori luogo la vena polemica di chi, come Lamberto Dini, si attarda a rimproverare a Chirac di aver promosso il referendum francese pur non essendo obbligato a farlo, sulla base di un calcolo politico errato: un’argomentazione, questa, che certo non brilla per sensibilità democratica, capovolgendo alquanto cinicamente l’attribuzione dei meriti e dei demeriti. Ma la duplice sonora bocciatura del Trattato costituzionale europeo dovrebbe altresì indurre anche i più ostinati ad un serio esame delle motivazioni che hanno determinato questo voto. La notevole affluenza alle urne che ha alimentato il successo del No è la speculare conferma, a un anno di distanza, del dato politico già registrato in occasione delle elezioni europee del giugno 2004, le quali furono al contrario caratterizzate da un altissimo tasso di assenteismo. In entrambi i casi, questa Europa è stata giudicata come si merita: alla stregua di un’entità burocratica, lontana dai popoli e dalla loro sempre più precaria condizione sociale. E’ istruttivo seguire la correlazione grafica proposta da Le Monde (1 giugno 2005) tra la distribuzione del voto sul territorio francese e il tasso di disoccupazione: le zone in cui si addensano i No corrispondono con regolarità alle aree dove più alto è il numero dei senza lavoro. Inoltre hanno votato No il 78% degli operai francesi, il 70% dei lavoratori agricoli, il 67% del settore impiegatizio. Tra i salariati che hanno voltato le spalle al Trattato costituzionale figurano percentualmente in prima fila i lavoratori interinali, subito seguiti dagli occupati a tempo determinato: quanto più precaria è la condizione socio-lavorativa, tanto più consistente si fa la percentuale del voto contrario. Anche sotto il profilo della curva del reddito, abbiamo un andamento analogo: ha votato No il 66% della fascia di reddito sotto i 1500 euro mensili, il 55% della fascia tra i 1500 e i 3000 euro, il 40% di quanti percepiscono un reddito tra i 3000 e i 4500 euro, il 26% di quanti si collocano sopra i 4500 euro. Come si vede, si è trattato di un voto incontrovertibilmente segnato dalle disparità di classe. Non v’è dubbio che anche la protesta sociale può direzionarsi verso destra e assumere, di caso in caso, connotati reazionari, isolazionistici, populisti e xenofobi. Tuttavia da qui occorre partire, per poter intendere un messaggio che pure è stato lanciato forte e chiaro. Molto probabilmente, la maggioranza dei votanti non ha mai letto neanche un comma del Trattato sottoposto al giudizio referendario; ma, certamente, ha ben sperimentato il potenziale socialmente distruttivo delle politiche sin qui praticate dall?Unione. E, conseguentemente, ha evidenziato con il voto il discrimine fondamentale che separa il No dal Si: il segno politico prevalente della costruzione europea, che è ad oggi un segno regressivo. Da questo giudizio di fondo discende tutto il resto. Beninteso, su di un piano storico generale, non si vuole qui discutere di quella che è stata la peculiarità della cultura politica europea, sottolineata da chi ad esempio ricorda lo specifico modello sociale cui si è ispirato il cosiddetto “capitalismo renano”: rispetto a quello Usa, per certi versi in grado di offrire un più alto grado di protezione sociale. Qualche tempo fa un dirigente del Pc giapponese, illustrandomi gli obiettivi della loro proposta di “rivoluzione democratica”, ribadiva l’importanza del conseguimento di standard “europei” nella tutela del lavoro: per chi si trova ad affrontare la piaga, diffusissima in quel paese, dello “straordinario non pagato”, non è cosa da poco. Ma ad un quindicennio dall’ ’89, anche su questo piano i margini si sono di molto ridotti e persino le socialdemocrazie, sono oggi pallida ombra di quel che furono. L’Europa di oggi (a guida franco-tedesca) è l’Europa dell’indiscussa primazia della Banca Centrale e del dogma del pareggio di bilancio. E, come sappiamo, le cose non vanno affatto migliorando.
Ci troviamo dunque, per un verso, a non poter fare a meno della dimensione europea, oggettivamente imposta dallo sviluppo strutturale. Sul piano della proiezione oltre i confini nazionali degli apparati produttivi nonché dei flussi di capitale e di merci, il “vecchio continente” ha raggiunto un maggior grado di integrazione. Sta qui l’impossibilità di una secca “rinazionalizzazione” della politica, la necessità di trovare solidarietà di classe e contenuti rivendicativi anche all’altezza della dimensione continentale. Nel contempo, c’è la constatazione che quella presente non è la nostra Europa, è con ogni evidenza un’Europa che contrasta su punti fondamentali con gli ideali e la pratica dei comunisti. Da qui discende il senso della scelta di un’opposizione frontale (non emendativa) all’attuale impianto costituzionale. Ritengo che i comunisti debbano continuare a non accreditare l’idea che si sia in qualche modo disposti a firmare cambiali in bianco a questa Europa. Men che meno sul terreno degli impegni militari e del riarmo. Su questo mi pare che il terreno aperto alla mediazione cessi sulla soglia di una constatazione: ogni qualvolta a sinistra si sono votati “crediti di guerra”, si è persa la propria anima. Del resto, in tale delicato ambito, il Trattato sancisce formalmente quanto già stabilito nel quadro degli impegni assunti dall’Agenzia europea per la Difesa, nata nell’agosto del 2004: la possibilità di interventi al di fuori dei confini dell’Ue, volti alla prevenzione di conflitti, operazioni di peacekeeping, stabilizzazione postbellica, lotta al terrorismo. Non è per noi questa la strada da imboccare.