Un turbolento mercato petrolifero

Non c’è pace sulle terre del petrolio. Guerra e tensioni sociali stanno versando sangue attorno ai pozzi iracheni e nigeriani, mentre non sono ancora rimarginate le ferite del conflitto sociale che ha recentemente scosso il Venezuela. Cominciamo con l’esaminare la situazione di quest’ultimo paese. Sul finire del 2002, la destra si scatena contro il governo di Hugo Chavez e, tentando di piegare un governo democraticamente eletto, non disdegna di colpire al cuore l’economia dell’intero paese, azzerando dal 2 dicembre l’attività petrolifera con il blocco di pozzi, raffinerie e porti. Solo dopo che Chavez è riuscito a riprendere in mano la situazione politica, l’industria petrolifera ha ripreso la sua attività gradualmente, ma attualmente non ha ancora raggiunto il suo tetto, essendo attestata intorno ai 2,6 milioni di barili al giorno (mbg). Non va dimenticato che il Venezuela, che produce 3,2 mbg, è il quarto esportatore mondiale con 2,5 mbg ed è il secondo fornitore USA (dopo l’Arabia Saudita) con 1,5 mbg.

Si erano appena affievoliti gli scontri in Venezuela, ed ecco che, in marzo, gli eserciti di Usa e Gran Bretagna invadono l’Iraq e la produzione di 2,4 mbg di petrolio (1,6 mbg esportati) viene interrotta. Con l’inizio della guerra, anche il Kuwait ha precauzionalmente chiuso alcuni pozzi (pari a 400/900.000 mbg). Passa circa una settimana e anche la Nigeria conosce nuove turbolenze politiche, perché scoppiano sanguinosi disordini tra etnie Ijav e Itsekiri. Le grandi compagnie petrolifere sono costrette a sospendere l’estrazione del greggio nella zona occidentale del delta del Niger. La Shell ha dovuto interrompere l’estrazione di 320.000 mbg e chiudere i terminal di Forcados e Bonny, mentre la ChevronTexaco ha bloccato tutte le sue attività nel delta, pari a 440.000 barili e contemporaneamente ha chiuso anche il terminal di Escravos. La stessa TotalFinaElf ha dovuto arrestare alcuni suoi pozzi. Con il risultato che l’estrazione di petrolio nigeriano è stata ridotta di circa il 40%. E’ bene qui ricordare che normalmente la Nigeria estrae circa 2,2 mbg di petrolio e ne esporta 1,9. Il 2003 è così cominciato con un susseguirsi di crisi che hanno inizialmente colpito il Venezuela (con i suoi 77 miliardi barili di riserve), poi la guerra ha investito direttamente il Medio oriente dove è concentrato il 65% delle riserve mondiali di greggio e, infine, è stata la volta della Nigeria dai cui giacimenti si estrae un ottimo greggio per ottenere benzine. Tra febbraio e marzo si è, inoltre, aggiunta l’applicazione di più rigorose norme turche sul transito delle petroliere attraverso lo stretto dei Dardanelli, cosicché il greggio russo e caspico imbarcato ai terminal del Mar Nero ha subito quasi un dimezzamento.

Da questa rapida ricognizione, emerge che le principali aree petrolifere del mondo sono attualmente costrette a ridurre le esportazioni di greggio. A tutto ciò si aggiunga che le scorte commerciali USA di greggio sono ai minimi storici degli ultimi 28 anni. Più tranquilla è al momento l’Unione Europea, i cui approvvigionamenti sono assicurati dal Mar del Nord (Gran Bretagna e Norvegia), Russia e Arabia saudita. Quanto all’Italia la principale fornitrice è la Libia con 20 mb/anno, seguita da Russia con 16 mb/a e poi Iran, Arabia Saudita, Norvegia, Siria ed Egitto. Più preoccupata è la Cina che importa un terzo del suo fabbisogno petrolifero: il 60% proviene dal Medio Oriente. Se la guerra in Iraq dovesse prolungarsi per sei mesi, il China Development Institute e l’Hsbc prevedono una riduzione della crescita economica cinese di circa lo 0,5%. Va tenuto presente che la Cina è attualmente costretta a importare oltre 5 mbg: nel IV trimestre 2002 ha toccata la punta più alta con 5, 41 mbg.

In questo contesto cosa potrà succedere al prezzo del greggio? Il prezzo del barile di petrolio, sensibilmente diminuito subito dopo l’invasione dell’Iraq nella prospettiva di una fulminea guerra, è ripreso a salire non appena si è capito che i tempi del conflitto non combaciavano con quelli preventivati dagli anglo-americani. Se a ciò si aggiungono le perdite di produzione in Venezuela, Iraq, Kuwait, Nigeria e i ritardi nelle consegne del greggio russo in partenza dai terminal del Mar Nero, nella congiuntura attuale si può prevedere un ulteriore aumento del prezzo del petrolio. Diverse sono invece le prospettive sul lungo periodo. Perché, nell’ipotesi che gli USA si impadroniscano dei pozzi iracheni e che cospicui investimenti vengano indirizzati per aumentare notevolmente l’estrazione di greggio dai giacimenti tra il Tigri e l’Eufrate, potrebbe esserci una riduzione del prezzo del barile. Un’ipotesi che terrorizza Mosca, dato che le esportazioni di idrocarburi costituiscono l’80% del suo commercio estero. Tanto che Mikhail Khorkovskij, presidente della compagnia petrolifera Yukos, ha già proposto di aumentare la produzione di greggio dagli attuali 380 milioni di tonnellate anno a 500 milioni. Le compagnie russe, infatti, non possono sopportare un prezzo del barile inferiore a 16 dollari, dato che il costo di estrazione del loro petrolio varia da 8 a 12 dollari il barile, contro circa un dollaro del petrolio iracheno. Sono dati che fanno capire quanto sia strategico il controllo dei 112 miliardi di barili di petrolio custoditi nelle sabbie del deserto iracheno. Nel saggio dall’emblematico titolo «Un progetto per l’imperialismo americano», Stanley Kurtz, sull’ultimo numero di Policy Revew (rivista della Hoover Foundation, pensatoio neoconservatore della Stanford University) scrivendo che «Oggi l’Afghanistan può essere il primo passo verso un nuovo impero americano (…) La questione irachena ha rafforzato il punto», dice con chiarezza come stanno le cose e verso dove sta andando l’amministrazione Bush. Infatti, in seguito all’invasione dell’Afghanistan, gli USA, per assicurarsi l’approvvigionamento petrolifero dal Mar Caspio, hanno stabilito rapporti con le forze armate di Azerbaigian, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan. Adesso, con l’invasione dell’Iraq, Washington estende la sua presenza militare su uno dei forzieri di petrolio del pianeta Terra. Ma c’è una novità. Con l’intervento militare in Iraq, la più grande potenza del mondo intende esercitare il controllo diretto degli affari interni di uno stato straniero: questo è il primo passo della strategia dei neoconservatori per costruire l’impero americano.