L’attentato di ieri a Kabul rappresenta il primo banco di prova per il non ancor nato governo di centrosinistra, una verifica per la tenuta dell’Unione sul fronte più fragile, quello della politica estera. Si tratta di una prova anche più insidiosa di quanto non sia stata l’uccisione dei nostri soldati a Nassiriya, la settimana scorsa. Sulla crisi irachena il centrosinistra ha trovato negli ultimi anni una posizione formalmente, main larghissima misura anche sostanzialmente, unitaria. Nessuno mette in dubbio la necessità di lasciare l’Iraq, e di lasciarlo il prima possibile. Dato e non concesso che esistano divisioni latenti, riguardano solo la definizione di cosa si debba intendere con la formula «il prima possibile». La missione in Afghanistan presenta caratteristiche opposte. Nel 2001 una parte del centrosinistra, quella moderata, aveva approvato e sostenuto la guerra contro il regime talebano, un’altra parte, quella radicale, aveva invece denunciato già allora la strategia degli Stati uniti e l’illusione di poter introdurre la democrazia a suon di bombe ed eserciti occupanti. Quella divisione viene riproposta oggi nella maniera più tragica, ed è sin troppo facile prevedere con quale bramosia la coalizione sconfitta si auguri di vederla riemergere con toni laceranti. Una spaccatura plateale prima ancora della nascita del governo Prodi sarebbe esiziale: quel governo nascerebbe già morto. È pertanto comprensibile che i partiti di centrosinistra cerchino in ogni modo di evitare frizioni, ed è anche giusto che sia così. Non però a prezzo di voltare la testa da un’altra parte e cavarsela con una classica miscela di silenzi e altisonante retorica. Anche le forze moderate dell’Unione, che votarono a favore della guerra afghana, devono avere il coraggio di ripensare seriamente a quella scelta, di chiedersi se davvero debbano continuare ad avere libero corso le formule usate e abusate da un quindicennio a questa parte dalla «guerra umanitaria» all’«esportazione della democrazia». È forse arrivato il momento, per i partiti che sostennero la missione afghana e si impegnarono attivamente nella guerra del Kosovo, di tracciare il consuntivo di un’ideologia e di una strategia dominanti ormai da tre lustri. È ora di chiedersi se il disastro iracheno rappresenti un’eccezione rispetto ai risultati altrimenti raggiunti da quella strategia o se non ne sia invece la logica conseguenza e allo stesso tempo l’esempio più vistoso, maniente affatto unico, del suo fallimento. Se l’Iraq è più che mai dilaniato dalla guerra, l’Afghanistan, a cinque anni dall’intervento militare, non è per nulla pacificato, e in Kosovo la guerra umanitaria non ha fermato né le stragi né l’odio tra etnie diverse. Ieri Romano Prodi ha detto che il tributo di sangue pagato dai nostri soldati «è forse in questo momento il principale problema del paese». E’ un passo nella giusta direzione, al quale dovranno tuttavia seguirne molti altri. Perché spaccarsi sull’Afghanistan sarebbe per l’Unione suicida, ma lo sarebbe anche rinviare l’inizio di una riflessione complessiva, senza attaccarsi al facile alibi della legittimazione da parte dell’Onu.