Sbaglierebbe chi pensasse che i fatti della Pirelli Bicocca, con il passaggio di una parte dei delegati della Filcem-Cgil all’Ugl costituisca un episodio marginale. Perché se la nuova casa è quanto di più inadeguato a rispondere alle aspettative dei delegati in fuga, è certo che il tema da essi sollevato chiama in causa l’acuta crisi di democrazia – e di rappresentanza -che attraversa il sindacato confederale.
L’accusa dei delegati di avere subito l’imposizione di occultare il proprio giudizio critico sull’accordo sul welfare del 23 luglio riflette un’esperienza troppo nota e lacerante per non comprendere che essa avrebbe inferto una ferita non facilmente rimarginabile proprio nella parte dei lavoratori più matura e gelosa di un ruolo attivo e non addomesticabile della propria militanza. C’è da augurarsi che altri non seguano la strada senza uscita imboccata alla Pirelli e scelgano l’ingaggio in una battaglia dentro e per la Cgil. Ma nessuno può cavarsela con un sermoncino. Il fatto è che la rivendicazione di una soggettività del lavoro, diretta emanazione dei lavoratori, lungi dall’essere vissuta come una benedizione, è da troppi considerata un fastidioso impaccio a una gestione sindacale sempre più burocratizzata e autoreferenziale.
Non tutti sanno che il 30 gennaio scorso, su proposta del segretario generale della Filcem-Cgil, il Comitato direttivo di quella categoria licenziò una bozza di regolamento unitario per l’elezione delle Rsu, riformulandone prerogative e doveri. Il documento – approvato con 12 voti contrari e un astenuto -imprimeva una svolta radicale che, onde evitare il sospetto di interpretazioni di parte, merita una citazione letterale: «La Rsu, in quanto struttura unitaria del sindacato, lo rappresenta in tutti i posti di lavoro (…), attua le linee rivendicative e di gestione di Filcem-Cgil, Femca-Cisl e Uilcem-Uil, promuovendo azioni conformi agli indirizzi deliberati dagli organismi di categoria (…), sostiene e promuove le iniziative del sindacato confederale». Secondo la nuova dottrina, dunque, la Rsu, eletta da tutti i lavoratori e legata a un mandato che da essi emana viene trasformata in una cinghia di trasmissione del sindacato confederale. La rappresentanza diretta dei lavoratori è cancellata e le si sostituisce il primato del sindacato esterno, depositario del potere decisionale, anche su materie contrattuali inerenti al luogo di lavoro. La Rsu dovrà solo adeguarsi. Sino al punto che «comportamenti difformi da questi principi possono costituire motivo per la decadenza della struttura». Quest’ultima, stupefacente ma quanto mai rivelatrice clausola sanzionatoria verrà poi cassata dal testo unitario, approvato il 12 febbraio scorso: persino ai «riformatori» dev’essere apparso di essersi spinti troppo oltre! Resta, immacolata, la prima parte, più sopra citata.
Quasi 40 anni di storia sindacale – quelli che dalla fine degli anni ’60 hanno, sia pure fra contrasti e alterne vicende, salvaguardato un ruolo autonomo delle rappresentanze dei lavoratori – vengono triturati dentro un dispositivo che liquida ogni forma di democrazia di base, fondata sul riconoscimento che ai lavoratori appartiene una qualche forma di sovranità. Il sindacato torna a essere, con formale deliberazione, un’entità sovra-ordinata, giustapposta ai luoghi di lavoro. I delegati sono suoi commissari, perché solo in quanto tali è loro concesso di esercitare quella funzione. Siamo fuori da una concezione del sindacalismo che malgrado tutto continuava a considerare vitale la dialettica fra organismi esterni, fondati sull’adesione libera e volontaria e organi della rappresentanza universale dentro i luoghi di lavoro. Eppure, per quanto paradossale, questo radicale capovolgimento di linea (come altri agiti sul campo: si pensi alla possibilità di deroghe al contratto nazionale contemplata, guarda caso, proprio nel recente contratto dei chimici) non è mai divenuto oggetto di una qualsivoglia discussione nell’organismo dirigente confederale, occupato con tenacia a mettere all’indice il dissenso intemo.
Non sono bei giorni, questi. Buon senso vorrebbe che li si affrontasse con grande apertura mentale e con la voglia di riaprire il circuito ostruito della comunicazione con i lavoratori. Chi si ostina a credere che la crisi della rappresentanza politica del lavoro non parli anche al sindacato commette un grave errore di presunzione. Non so se lo pagheranno i sindacalisti. Di certo lo pagheranno i lavoratori.