Un servitor cortese per il dopo Fazio

Se il passato conta Mario Draghi non è un corpo estraneo in Banca d’Italia. Suo padre Carlo, infatti, fu collaboratore dell’ex governatore Donato Menichella – artefice di una politica antinflazionistica lacrime e sangue – che resse la banca dal dopoguerra fino al 1960, quando fu sostituito da Guido Carli. E lui stesso fu consulente di Ciampi all’inizio degli anni `90. Draghi non è un giovanissimo e con i suoi 58 anni è decisamente meno giovane di quando Carli (46 anni) divenne il più giovane governatore nella storia. Draghi fa ottimi studi: è allievo di Federico Caffè (voto di laurea 110 e lode) ma negli anni caldi dell’università non si hanno sue notizie, anche se aveva fama di progressista. Poi studia al Mit con Franco Modigliani, Rudy Dornbush e Stanley Fisher. Chi lo conosce dice che ama la montagna (ma non esistono sue foto come quelle di Alemanno), ma predilige le scalata non in cordata, al massimo con un maestro. Secondo alcuni proprio la montagna ha forgiato il suo carattere.

Nel lavoro però Draghi non ama la solitudine. Ama il dialogo, il lavoro di staff, la discussione, circondarsi di intelligenze. In questa ottica in Banca d’Italia – lo confermavano sottovoce ieri – si attendono molto. In primo luogo uno svecchiamento del direttorio: Vincenzo Desario, il direttore generale attualmente reggente, con il suo arrivo è destinato a lasciare. E sarebbe pronto per il pensionamento anche il vice direttore Finocchiaro. Probabilmente, invece, resterà Pierluigi Ciocca che sarà nominato direttore generale. Con Ciocca c’è infatti una affinità intellettuale e un rapporto anche personale sperimentato. Questa volontà di cambiamento spiega anche la nomina a interim – decisa ieri – di Giovanni Carosio, direttore centrale per le attività di Banca centrale e mercati, al posto di Francesco Frasca inquisito per la vicenda Antonveneta.

Un grosso passo in avanti con la nomina a vice direttore generale dovrebbe farlo Ignazio Visco (nessuna parentela con l’ex ministro Vincenzo Visco) attualmente responsabile per le attività estere. Invece sembrano destinati a lasciare Angelo De Mattia e Giancarlo Morcaldo, il responsabile per la ricerca economica. Settore che Draghi vuole rilanciare con collaboratori interni e soprattutto esterni come fece in altri tempi Paolo Baffi.

Draghi collabora con Ciampi non solo in Banca d’Italia, ma anche quando, chiamato da Carli, occupa la carica di direttore generale del tesoro in sostituzione di Mario Sarcinelli, vittima innocente, come Baffi, del falso scandalo che travolse Bankitalia nel 1979. Gli anni 90 sono gli anni dell’entrata nella Ue, di grande risanamento dell’economia pubblica e soprattutto di grandi privatizzazioni realizzate per fare cassa e nell’illusione che cedendo ai privati le imprese ci sarebbe stata maggiore concorrenza e più efficienza. E Draghi è in prima linea per dieci anni, visto che si dimetterà nel settembre 2001 pochi mesi dopo il ritorno di Berlusconi e di Giulio Tremonti al ministero dell’economia.

Draghi dedica molte forze alla trasformazione delle Casse di Risparmio (feudo Dc) in spa. Cioè alla separazione tra la proprietà delle banche e il loro braccio operativo. E comincia a vendere pezzi dello stato. Nel 2001 fu presenta un rendiconto delle dismissioni realizzate: oltre 223 mila miliardi di lire. Finisce in mani private il cuore di quello che era stato il più originale strumento per favorire lo sviluppo italiano nel dopoguerra: le partecipazioni statali a cominciare dall’Iri che controllava le maggiori banche. Solo per fare qualche nome Credito italiano, Banca Commerciale, Imi, Banca nazionale del lavoro, Mediocredito centrale, Banco di Napoli.

Finiscono ai privati anche industrie e marchi prestigiosi del settore alimentare controllati dalla Sme sui quali aveva messo gli occhi De Benedetti. Viene privatizzata anche l’Ina che poi finisce nelle mani della Assicurazioni Generali. Gli italiani cominciamo a prendere confidenza con le Opa, le offerte di pubblica vendita, che all’inizio danno l’illusione di un capitalismo di massa con grandi public company, come è sempre piaciuto a Prodi. Illusione, però: per molte banche – con la regia di Enrico Cuccia – in pochi mesi si passa dall’azionariato diffuso all’azionariato concentrato, con il controllo (spesso incrociato) dei soliti noti del «salotto buono».

C’è Draghi al Tesoro quando viene ceduta la prima tranche di Eni; c’è ancora lui a dirigere lo sciagurato collocamento (con un nocciolo duro che tradisce la sua missione per pochi denari di capital gain) quando viene privatizzata la Stet, oggi Telecom. C’è sempre lui a coordinare la prima vendita di azioni Enel che fa affluire tanti soldi nelle casse pubbliche, ma non dà eccessive soddisfazioni ai sottoscrittori. Per Draghi, quindi, molti successi – compreso l’ingresso italiano dell’euro fin dall’inizio – anche se le ombre non mancano; molte privatizzazioni sono fatte frettolosamente con l’obiettivo di fare cassa e non di aprire ai mercati. E spesso monopoli pubblici si trasformano in monopoli privati, senza benefici per la collettività.

Dopo l’addio a Berlusconi, Draghi si trasferisce a Londra. Grazie aglii intensi rapporti internazionali e alla – si dice – grande capacità di mediazione, all’inizio del 2002 conquista la vice presidenza europea della banca d’investimenti Goldman Sachs. E per la Goldman coordina una operazione che forse può spiegare perché la presa di possesso della poltrona di governatore scatterà solo dal 1° febbraio. La Goldman, infatti è uno degli advisor che coordinano il tentativo di scalata del Banco di Bilbao alla Banca nazionale del lavoro. E ora sarà la Banca d’Italia a decidere se l’Unipol, avversaria dei baschi nella corsa a Bnl, potranno fare la loro Opa.

Draghi non è uomo di sinistra, anche se certamente non è di destra. O almeno non di questa destra. Credo possa essere definito un liberal nell’accezione Usa. Con il suo arrivo potrebbero cambiare molte cose. Se, come sembra, abbandonerà la politica protezionista sul sistema finanziario, si aprirà una nuova stagione di scalate che potrebbero coinvolgere il cuore del capitalismo italiano: Mediobanca e Generali per prime. E forse anche il Corriere della sera.