Un “sentire comune” per l’unità dei comunisti

Tra le varie questioni sollevate da chi non si dice convinto, o si oppone del tutto, all’ipotesi di una nuova unità dei comunisti, a partire dalle due formazioni più consistenti, PRC e PdCI, una viene portata in campo con particolare animosità (e speciosità): il presunto permanere dello stalinismo tra i comunisti italiani. Intendo con queste due parole, quanti, in Italia, si dicono comunisti, a partire da sè, dalla propria esperienza e dai propri convincimenti . Dubito infatti che esista, nella enorme incertezza contemporanea (ben lontana dalla “grande confusione” che regnava sotto il cielo rivoluzionario del pensiero di Mao Tse Tung) chi possa – dall’esterno dell’intimo sentire di ciascuno e ciascuna – distribuire patenti di autenticità a chiunque. Operazione che mi sembrano compiere, per stare al partito di cui faccio parte, quei compagni e quelle compagne che ancora si attardano a porre condizioni e sottili distinguo che sarebbero superabili, si dice, soltanto sul terreno, preliminare, dell’agire comune. (Un agire comune da sottoporre poi a giudizio, si sottintende. A giudizio di chi?).
Sarà che sono una femminista di lungo corso, di quelle peraltro che si sono formate al femminismo della differenza (un’eresia!) praticato (doppia eresia!) nell’organizzazione storica delle donne, l’UDI, ma penso che il tragitto da compiere vada esattamente all’inverso: le mediazioni sul “fare assieme” non possono che arrivare in seconda battuta, e si trovano a partire dal riconoscimento che l’altro, l’altra, si muove all’interno non del medesimo tuo mondo (questo sì, concetto di matrice stalinista), bensì del medesimo tuo desiderio. Per dirla in soldoni: non si dà in natura l’unità di nulla che non sia frutto di un sentire comune.
Di più: c’è qualcuno tra di noi, e intendo tra gli uomini, le donne e i molteplici luoghi della diaspora comunista, così presuntuoso da pensare di riuscire, guardando il mondo dalla sua postazione data, a pre-definire le caratteristiche di quel sentire comune? Perchè è di questo che si tratta quando si afferma (lo dico con le parole di Claudio Grassi su queste stesse pagine) che “l’unità declamata (astrattamente)” sarebbe “un a priori ideologico” capace di partorire soltanto “una proposta politica (quella della “unità dei comunisti”) illusoria perchè fondata sull’idea (tutta politicista) che sia possibile dividere, d’emblée comunisti e non comunisti e quindi smembrare e ricomporre partiti, associazioni, gruppi e collettivi ricostruendo a tavolino il campo della sinistra e le rispettive appartenenze”.
La pratica femminista insieme ad una lunga militanza nel PCI mi hanno insegnato che è la realtà a dare misura alle cose. Se è vero che niente si costruisce a tavolino, altrettanto vero è che, nella vita di tutti i giorni, uomini e donne si cercano e costruiscono cammini comuni a partire da una affinità di fondo, matrice prima della capacità progettuale che consente di individuare obiettivi praticabili, in funzione delle necessità in cui ci si trova e del desiderio che si mette in campo per rendere socialmente significative quelle necessità. (Non è questa la politica?).
Per dirla di nuovo in soldoni: è nella relazione tra noi, che ci diciamo individualmente e collettivamente comunisti/e, che può rendersi praticabile la sfida della costruzione di un progetto di ritrovata autonomia comunista, che ha bisogno – nel 2009 e in questa parte del mondo occidentale – di quel “partito all’altezza dei tempi” che richiamava Fosco Giannini sempre su queste pagine. Dove sta lo stalinismo, in tutto questo? Dove sta la piegatura ideologica?
Sgombriamo il campo, non è di questo che si tratta. Posso sbagliare, ma l’illusione più perniciosa mi sembra quella coltivata da chi, anche di fronte al disastro delle ultime elezioni, continua ad immaginare se stesso ed il proprio attuale luogo di appartenenza politica, come l’unica realtà che valga la pena rafforzare, in cui valga la pena restare. Le molteplici scissioni che hanno attraversato Rifondazione nella sua pur breve vita dovrebbero averci insegnato che non c’è luogo in cui sentirsi al sicuro, non c’è cittadella da difendere e fortificare nella speranza che il mondo intorno modifichi, nel frattempo, il suo corso. Ci sono invece uomini e donne con necessità, passioni, desideri, speranze, con cui costruire qui ed ora la mediazione possibile per consentire a ciò che più abbiamo a cuore di non diventare parola vana.
Può darsi che il processo di unità dei comunisti richieda ancora, in questa fase, ridislocazioni e crogiuoli di re-identificazione: per un altro verso, non è questo che stanno facendo i cosiddetti “vendoliani” che hanno lasciato per strada la necessità di riconoscersi in una comune matrice comunista e pensano ad una “sinistra” senza definizioni? Quel che è certo, almeno per me, è che per fare unità occorre prima di tutto partire dal luogo in cui si è. Bisogna partire come singoli e come organizzazioni, che si tratti di partiti o di parti degli stessi.
L’unità non è solo un processo (quello sì costruibile a tavolino), l’unità è fondamentalmente un viaggio. E il viaggio porta sempre altrove. In un diverso luogo di incontro, dove si entra con una dote che si mette a disposizione di chi ha deciso, partendo da un altro punto, di incontrarsi con te. Vale per gli esseri umani, quando costruiscono una comunità d’amore. Perchè dovrebbe essere diverso per le passioni che muovono i luoghi politici?

* Comitato regionale PRC Emilia Romagna