Jean Chesneaux, storico della Cina e del Vietnam, ha scritto sulla presenza francese non solo nell’Asia del sud-est ma anche nel Pacifico.
Cosa pensa della legge che decreta il «ruolo positivo» della colonizzazione?
Si tratta di un vero e proprio revisionismo coloniale, nel peggior senso del termine, cioè di una manovra ideologica che tende a lavare i crimini dell’espansionismo coloniale del XIX e XX secolo, come quelli del nazismo. Senza fare naturalmente nessun amalgama tra nazisti e «coloniali», che potevano anche essere «brava gente», ma pur sempre dei profittatori. Si tratta di una questione storica di grande importanza, non di un episodio isolato. Anche se c’era «brava gente», questo non cambia nulla, perché bisogna affrontare il problema della finalità della storia, al di là di quello dell’intenzionalità. Portare i vaccini, costruire scuole e ferrovie potevano essere dettati da buone intenzioni, ma resta il problema della finalità: la logica profonda dell’evoluzione del capitalismo dell’Europa occidentale che ha portato all’espansione coloniale, cosa buona per i profitti e la potenza, che ha riguardato non solo Francia, Gran Bretagna, Olanda, Portogallo, ma persino Svezia e Danimarca, con un summit raggiunto dal Belgio, dove il re era proprietario privato dell’immenso bacino del Congo.
La destra parla di «effetti positivi» della colonizzazione. Anche questi si inseriscono in una finalità di sfruttamento?
Le colonie dovevano essere ben tenute, i rischi dovevano venire eliminati. Quindi bisognava eliminare le malattie, garantire la sicurezza, fornire personale docile – di qui il ruolo della scuola – costruire infrastrutture, per portar fuori le derrate. In questa legge c’è una logica profonda, un meccanismo cartesiano nel cattivo senso del termine, di bianco e nero, un dualismo bene-male che fa parte della propaganda occidentale ma che è solo una filosofia a buon mercato. Mettono a confronto due colonne, i più e i meno, come in un estratto conto bancario. Si tratta di una truffa logica, vogliono fare un bilancio dei più e dei meno, ma prendere a prestito il linguaggio delle banche non è innocente. La vera questione è: perché i bianchi in America, poi in Asia, in Africa, più tardi in Oceania hanno cercato il dominio politico e militare a profitto dei loro interessi ? Parlare del più e del meno dispensa dal riflettere sul senso storico della colonizzazione. Troppo sovente, la lista dei vantaggi viene gonfiata, viene idealizzato l’apporto di «civiltà», mentre è accettato solo a malincuore di mettere qualcosa nella colonna dei meno. La repressione, lo sfruttamento vengono considerati soltanto eccessi disdicevoli, individuali o occasionali.
Eppure in Francia la critica del colonialismo ha una sua storia. E’ dimenticata ?
In Francia un insieme di movimenti di idee ha messo da tempo sotto accusa l’espansione coloniale fin dal XIX secolo. Faccio un solo esempio: André Gide, che non era un rivoluzionario, ha scritto un reportage sulla costruzione della ferrovia Congo Océan, per collegare al mare le zone forestali, prospere, del Congo francese. Gide dovrebbe figurare in tutti i manuali scolastici e le sue riflessioni incise nel marmo all’Assemblea, perché mostra tutta la bestialità sanguinosa, il modo selvaggio in cui venivano trattati gli abitanti, spediti alla morte. Non si tratta di una reazione politica contro Sarkozy o Chirac, ma di una corrente di idee che ha animato la Francia fin da prima della Grande guerra.