Un referendum al contrario per Rifondazione

La mossa della sinistra radicale, in particolare di Rifondazione, è inedita e dunque sorprendente. Annunciare che in autunno si svolgerà un referendum tra gli iscritti per farli decidere se restare o meno al governo è una assoluta novità, che vale la pena discutere anche per le conseguenze che può provocare.
A prima vista sembrerebbe un salutare bagno democratico. Non si parla d’altro che di scollamento tra politici e elettori, tra vertice e base, tra casta e i sudditi, ecco che qualcuno fa entrare i sudditi nel Palazzo, addirittura delegando loro una decisione come la partecipazione al governo. Come si dice nel gergo della sinistra alternativa, è «la democrazia partecipativa». Ma questa è solo, appunto, una prima impressione, in quanto tale anche superficiale. Perché in realtà nessuno può credere sul serio che i dirigenti di Rifondazione si consegnino mani a piedi, consegnino cioè la loro capacità di decisione, di scelta, infine di leadership, nelle mani di alcune decine di migliaia di persone. Viene allora da pensare che se pure veramente si facesse questo referendum, avrebbe comunque un esito precostituito: quello che lo stesso gruppo dirigente avrà deciso prima. Se così fosse, si tratterebbe di un semplice esercizio democratico – o democraticistico – che ricorderderebbe da vicino le primarie che elessero Prodi candidato premier: un candidato praticamente unico visto che i suoi antagonisti partecipavano sapendo di non poter vincere (e neanche volendolo). Insomma un finto referendum, magari per farsi dire di restare al governo comunque e nonostante le mille difficoltà che il partito sta incontrando nell’azione politica. Ma se si trattasse di una consultazione vera, e non su singoli punti come dobbiamo muoverci sulle pensioni, sul welfare, sulla finanziaria, che allora potrebbe essere un interessante esperimento di partecipazione – se veramente Rifondazione decidesse di rimettere nelle mani dei militanti il destino come partito di governo, e dunque quello del governo stesso, si aprirebbe tutt’altro capitolo. Ci troveremmo di fronte a una sostanziale abdicazione di chi è chiamato a decidere, a prendersi delle responsabilità, a fare delle scelte. Chiamato a farle per di più non solo dagli iscritti ma anche – e soprattutto – da molte più persone, cioè dagli elettori. I quali hanno indicato sulla scheda quella forza politica dopo essere stati informati di quel che essa avrebbe fatto, sulla base di un programma politico-elettorale. Sarebbe singolare e anche irritante se il partito che hanno votato affinché stesse al governo, ne uscisse dopo aver consultato solo una piccola minoranza di iscritti.
Non solo: nascerebbe anche una questione di democrazia formale e sostanziale. Un risultato del genere provocherebbe nei fatti un annullamento delle elezioni le quali, fino a prova contraria, sono il momento più alto – non l’unico ma il più importante sì – del rapporto tra la politica e i cittadini. La prima si presenta ai secondi chiedendo i voti per poter fare questo o quest’altro, se i secondi la votano ci prova, e se non ci riesce decide nella sua autonomia cosa fare, anche uscire dal governo per esempio, e alle elezioni successive verifica se ha fatto bene o male. Assumendosi la responsabilità della scelta, così come fece lo stesso Fausto Bertinotti nel ’98. Che infatti pagò il prezzo dell’isolamento nel mondo politico e tra i suoi stessi sostenitori, fino alle elezioni seguenti che certo non premiarono il suo partito. Oggi chi lo ha sostituito alla guida di Rifondazione, Franco Giordano e il suo gruppo dirigente, sono chiamati ad avere lo stesso coraggio, sia se decidono di uscire dal governo sia – forse ancora di più – se decidono di restarci. Senza scaricare il barile su improbabili consultazioni pseudopopolari.