Credo che fossimo in molti, ieri mattina alle sette davanti al televisore: il cessate il fuoco nel sud del Libano ci sarebbe stato? Israele bombardava fino a un quarto d’ora prima. Soprattutto non è avvezza a stare alle delibere dell’Onu. Tre giorni fa il governodi Ehud Olmert aveva scagliato l’offensiva piu forte, facendo penetrare Tsahal per venticinque chilometri all’interno del territorio libanese. Invece alle sette sono cominciate a scorrere le prime immagini dei soldati tornati ragazzi
che si abbracciavano, le armi non più puntate, le due parti facendo allegramente segni di vittoria – inrealtà liberate perunmomento dal doveruccidere e temere di essere uccisi…
Per ilmomento la guerra è ferma. Forse è finita. La risoluzione 1701 ha delle ambiguità, interdicendo soltanto operazioni «offensive» e qualcuno potrebbe ricominciare a sparare asserendo di difendersi. Israele ha
dichiarato di iniziare il ritiro ma non sgombera tutto il territorio finché non vi saranno presenti le forze regolari libanesi e quelle di interposizione dell’Onu. E un conto è che gli Hezbollah accettino la risoluzione e il governo del Libano li confermicomeforza poltica,
un altro che vengano disarmati. Maqui la parola passa alla politica. Per la prima volta nella sua esistenza Tsahal non ha vinto – la guerra del 1967 era durata sei giorni, questa andava avanti da un mese di
fronte a una resistenza che, manifestamente sottovalutata, non ha ceduto. Anzi, più di un opinionista osserva che la risoluzione
delle Nazioni unite avrebbe offerto al governoOlmert, dopo avergli consentito due giorni in più di mano libera, una onorevole via d’uscita. Sta di fatto che Tsahal è stato fermato, ed è crollato un mito disastroso – che Israele potesse sempre imporre le sue soluzioni militari alle impasse politiche che crea e alimenta. Non è più così. Da ieri hanno cominciato a bruciare le polemiche del leader del Likud, Netanyahu, contro il premier Olmert, il ministro della difesa Peretz e la ministra degli esteri Livni, che sarebbero stati troppo deboli. Ma i fatti sono fatti. Un indebolimento di Israele rispetto all’immagine di sé è innegabile, l’adesione all’inizio plebiscitaria alla guerra era stata infranta da qualche
giorno dall’appello dei tre intelletuali, Yehoshua, Oz e Grossmann (che sabato, alla fine, ha perso al fronte il figlio ventenne) e il ripensamento di Peace Now. Anche a Washington da qualche giorno ribollono le acque. L’intera politica americana inMedio Oriente, dopo l’invasione dell’Afghanistan e specie dell’Iraq, viene in discussione. Unilateralismo e guerra preventiva – i due principi condivisi con i governi isrealiani – sono in scacco. È il riscatto dell’Onu? Sembra eccessivo dirlo. Ma ha ragione Massimo D’Alema a osservare nell’intervista a Repubblica che, separandosi da quei due fatali assiomi, l’Onu può riavere un ruolo e per la prima volta l’Europa ha manifestato qualche intenzione di prenderselo. Anche partecipando maggioritariamente a una forza di interposizione, unico corpo militare ammissibile, che impedisca ulteriori degenerazioni in un mondo acerbamente conflittuale. Non sono condivisibili le parole, altre volte ragionevoli, di Giulio Andreotti: pensiamoci, perché è una missione pericolosa. Certo che lo è. E forse più delle missioni codiste alle imprese di Bush finora consentite.
Ma quelle avallavano, anche se ex post, un’aggressione, questa deve fermare un conflitto. Anche la sinistra radicale dovrebbe ammetterlo.
Se la tregua terrà,molto sarà da ricostruire. E non solo nelmartoriato Libano. Finché resta aperta la spina del conflitto israelo-palestinese,
che la Map Road è insufficiente a risolvere, il Medio Oriente sarà sempre sull’orlo del precipizio. La sanguinosa avventura libanese faccia riflettere.