Giovanni Mazzetti, docente di Economia politica all’Università della Calabria, è autore de “Il pensionato furioso”, (Bollati Boringhieri, Torino 2003, euro 12,00) una “sfida all’ortodossia previdenziale”, acuto libello nato con l’obiettivo di contrastare i luoghi comuni dominanti, che evocano in continuazione la necessità di tagli alla previdenza sociale. Una tesi, questa, che per quegli economisti e politici che Luigi Cavallaro definisce “bocconiani” si ammanta di una presunta naturalità derivante dalla crescita delle speranze di vita. Ne sembra convinto anche il governo dell’Unione che, per voce del suo primo ministro e degli esponenti che si apprestano a dar vita al Partito Democratico, ritiene necessario un nuovo aumento dell’età pensionabile, e misure per sfavorire l’uscita dal lavoro tramite meccanismi di incentivo per chi rimane e disincentivi per chi lascia.
Secondo il governo un aumento della sopravvivenza media non può che portare ad un allungamento del tempo di lavoro. Si tratta di una convinzione largamente condivisa anche dal senso comune prevalente. Nel suo libro ha confutato questa tesi. Con quali argomentazioni?
L’atteggiamento prevalente, quello che ritiene necessari nuovi tagli alle pensioni, ha una radice che definirei arcaica: non tiene conto, cioè, di quanto accaduto negli ultimi cento anni. Prima si sosteneva che molti dei nostri guai derivassero da una natalità elevata, che perciò la popolazione “premeva troppo pesantemente sulle limitate risorse esistenti”. Ora ci si lamenta, assurdamente, che non si fanno abbastanza figli e che, per questa ragione, gli anziani debbono sopportare dei “sacrifici”. Ma fino a prova contraria i figli, almeno fino ad un’età di venti-venticinque anni, rientrano tra le cosiddette classi di età dipendenti, che godono cioè di risorse senza produrne. Dunque la diminuzione del numero dei bambini “libera” risorse per gli anziani, i quali potrebbero essere trattati meglio di oggi. Ma c’è di più.
Nel secolo passato abbiamo imparato che la principale componente dello sviluppo non è data dal numero delle “braccia” al lavoro, bensì dalla qualità di quel lavoro, cioè dalla sua produttività. Ma soprattutto abbiamo compreso che se la società non impara a utilizzare coerentemente i frutti degli aumenti di produttività che intervengono, si avvolge su se stessa e cade in regresso. La società, cioè, ha un’eccedenza produttiva sistematica, che in passato veniva utilizzata dai capitalisti come plusprodotto per trasformarlo in investimento produttivo. Ora, il nocciolo dell’insegnamento di Keynes sta nella consapevolezza che, dal 1920 in poi, i capitalisti non si sono dimostrati in grado di utilizzare pienamente i frutti degli aumenti di produttività, determinando una tendenza strutturale al ristagno produttivo. Il keynesismo ha affrontato il problema teoricamente dicendo: usate gli aumenti di produttività per favorire la crescita dei consumi collettivi, quello che si chiama Welfare State, e che comprende non solo le pensioni, ma anche scuola, sanità, forme di sostegno al reddito, interventi di salvaguardia dell’ambiente, etc…. Da allora le pensioni, che prima erano solo una miserevole assistenza ai poveri, sono diventate una razionale forma di utilizzazione delle risorse disponibili.
E’ proprio questo insegnamento che Padoa Schioppa e Damiano (e ieri Maroni, l’altro ieri Dini) sembrano aver dimenticato, sostenendo che le pensioni sottraggono risorse altrimenti disponibili per investimenti produttivi. Per questo, sin dal tempo dell’intervento del governo Amato, hanno inventato la balla del conflitto tra generazioni.
Eppure il presidente della Banca Centrale Europea Trichet continua a parlare di un’Europa troppo poco liberista rispetto agli Stati Uniti, capaci di aumenti della produttività maggiori.
Mi permetto di affermare che Trichet è del tutto fuori strada. Quello statunitense è un finto aumento di produttività. Come dimostra un’interessante articolo di Gabriele Serafini su Critica Marxista della fine del 2005, gli aumenti di produttività sono calcolati in maniera diversa sulle due sponde dell’Atlantico. In realtà il ragionamento sulla produttività che fa Trichet serve a costringerci ad una logica da diciannovesimo secolo. Mi spiego: “per avere di più”, dicono gli ortodossi, “bisogna dare di più”. Cioè si dovrebbero immettere più risorse, cioè una quantità maggiore di lavoro o di altri “fattori” della produzione, per avere un prodotto maggiore. Ora, se la produttività non cambia è ovvio che per raddoppiare i consumi si debbono impiegare due lavoratori là dove prima se ne impiegava uno solo. Oppure lo stesso lavoratore deve lavorare il doppio. Ma se la produttività aumenta lo stesso lavoratore può soddisfare una quantità maggiore di bisogni, perché produce di più, ed in realtà molto di più. Nell’ottocento ci volevano tre giorni di viaggio per andare da nord a sud; oggi basta un aeroplano che può portare le merci in due ore; per costruire un chilometro di autostrada prima occorrevano due o trecento lavoratori, ora ne bastano una ventina; per realizzare un giornale prima ci volevano decine di linotipisti, ecc., oggi ne basta una frazione. Il risultato di questo cambiamento radicale è che chi si trova a valle può ottenere di più. Non sono più le “braccia” la forza produttiva umana che consente di soddisfare bisogni, ma la produttività del lavoro sociale.
Si parla di scontro tra generazioni. La crescita della spesa pensionistica sottrarrebbe risorse agli investimenti, limitando lo sviluppo economico. Il benessere degli anziani, insomma, lo pagherebbero i giovani, con una mancata crescita del sistema produttivo. Che ne pensa?
Penso che si tratti di una vera e propria favola. Già dal 1920 si era capito che l’aumento di produttività può portare ad una produzione eccedente, e quindi a crisi. Queste venivano erroneamente sperimentate come dovute ad una mancanza di risorse, ma in realtà erano la conseguenza di un’incapacità di impiegare nuovamente le risorse che nel frattempo erano state prodotte. Se un imprenditore non riesce a continuare ad occupare una parte dei propri lavoratori e li licenzia, la cosa non si ferma lì. Il fatto che essi non percepiscono un reddito, in conseguenza del licenziamento, fa sì che scompaia anche la domanda che sosteneva il lavoro di coloro che prima producevano per loro; quindi si va in recessione e aumenta la disoccupazione. La crisi, cioè, è causata da un’incapacità, da parte degli imprenditori, di creare quel lavoro aggiuntivo che corrisponde ad un impiego dei frutti degli aumenti di produttività. Lo Stato sociale risolve questa contraddizione impiegando il prodotto eccedente in consumi produttivi a sostegno dello sviluppo. Da questo semplice meccanismo deriva il miracolo economico che, negli anni cinquanta e sessanta, abbiamo vissuto in Italia e in buona parte del mondo sviluppato dopo la seconda guerra mondiale.
In questa ottica l’ipotesi del conflitto tra generazioni non trova alcun senso, poiché l’aumento dei consumi, e solo esso, permette ai giovani di trovare eventualmente un’occupazione che diversamente non troverebbero. Nell’aumento delle pensioni non c’è, cioè, un conflitto, ma un patto positivo tra generazioni. I giovani possono trovare un lavoro e impiegare la loro capacità produttiva e le risorse esistenti, solo in quanto soddisfano i bisogni degli anziani. L’opposto di quanto sostiene quella che chiamo ortodossia previdenziale.
Un’ortodossia che sembra aver conquistato non solo il nostro paese, ma l’intera Europa, che negli ultimi decenni ha dimenticato i successi del proprio Welfare State.
Come sempre succede le tendenze culturali non riguardano mai un solo paese. Negli anni ’60 tutto il mondo era keynesiano, e chiunque professasse idee prekeynesiane era guardato male. Oggi al contrario, non esistono né keynesiani né marxisti, e coloro che rimangono in vita sono relegati ad essere una minoranza. Ma anche tra quei pochi c’è una grandissima confusione. Polemizzando con Luigi Cavallaro, ad esempio, Valentino Parlato diceva che il nostro paese ha un problema di offerta. Secondo lui, cioè, sarebbe necessario “allargare la base produttiva”. Ma per fare cosa? A chi dovremmo vendere, a chi dovremmo sottrarre quote di mercato, se in tutto il mondo c’è già un’enorme capacità produttiva eccedente? Se parte della sinistra continua ad insistere con la crescita della produzione materiale, non riconosce che, al contrario, c’è un problema di sbocchi. Che oggi viviamo nell’era dell’abbondanza. Anche in questo caso si tratta di un ragionamento arcaico che sembra riferirsi a cinquanta anni fa, quando mezza Italia soffriva di malnutrizione e analfabetismo, e quando c’erano 1,5 milioni di automobili, e non, come oggi, 38 milioni.
Oggi nessun paese può fare una politica industriale a se stante, nessuno può limitarsi a rincorrere la competitività. Il mondo di oggi è capovolto rispetto al passato: nell’ottocento gli inglesi facevano credito ai paesi sottosviluppati per costruire mercati di sbocco per le proprie merci. Oggi, al contrario è la Cina che presta denaro agli Stati Uniti. E l’eccedenza di cui parlavo prima è destinata a crescere se ogni paese si ostina a competere con gli altri per sottrarre loro mercati, invece di investire queste risorse in forme coordinate con le potenzialità di crescita della domanda globale, ma soprattutto con le possibilità di sbocco.
Dunque per sostenere la crescita le pensioni non vanno tagliate, ma aumentate…
Tutti i ragionamenti sulle pensioni riguardano il rapporto tra i versamenti e l’esborso corrispondente. Il pensiero ortodosso sostiene che da questo rapporto può nascere uno squilibrio. Io al contrario credo che il sistema previdenziale deve andare in deficit, perché è proprio esso che sostiene la domanda, senza la quale scomparirebbe il motivo stesso della produzione. Il deficit non è una cosa senza senso, ma il riconoscimento che il rapporto di valore sta crollando, e pertanto non media più lo sviluppo. Ma per comprendere ciò bisogna conoscere almeno un po’ la contraddittorietà dei rapporti monetari. Bisogna sapere che un accrescimento delle forse produttive sfocia in un impoverimento che proprio perché è paradossale sfugge alla percezione del senso comune. Insomma bisogna conoscere almeno l’ABC del pensiero di Marx. E allora, se si vuole perseguire realmente lo sviluppo, bisogna programmare un rapporto coerente tra produzione e soddisfazione dei bisogni, invece di fantasticare che se si lasciano un po’ di risorse in più alle imprese l’economia riprende il suo percorso di crescita. Ma questa sembra un’ipotesi al di là della normale capacità di rappresentazione politica.
La finanziaria che il governo presenterà a fine mese, secondo quanto affermato da Tommaso Padoa Schioppa, non si limiterà ad interventi sulle pensioni, ma investirà altri tre capitoli di spesa: enti locali, pubblico impiego e sanità. Qual è il suo giudizio?
Una finanziaria del genere può avere un solo risultato: strozzare la crescita, perché colpisce la domanda. Dire che lo Stato taglia la spesa ha senso solo se si suppone che ai tagli consegue una spesa alternativa. Ogni attività economica scaturisce da una spesa. Se si tagliano le spese si elimina parte del lavoro. Quello dei tagli è un dogma, una religione, quella dell’economia ortodossa, secondo la quale, al di là di ogni evidenza, da un’azione non può che scaturire una conseguenza predeterminata. Circa venticinque anni fa, ad esempio, iniziò una dura lotta contro il costo lavoro, definito eccessivo. Oggi il costo del lavoro nel nostro paese è tra i più bassi d’Europa, e circa un terzo del valore aggiunto è passato di mano dai lavoratori alle imprese. Da allora si ripete che da questo abbattimento del costo del lavoro sarebbero derivati nuovi investimenti: eppure questo non è accaduto. La finanziaria, così come il governo si prepara a presentarla, è un disastro. Al contrario, visto che abbiamo avuto miliardi di introiti inaspettati nel bilancio dello Stato, limitiamoci ad incassarli, e a spenderli nella soddisfazione su scala allargata dei bisogni sociali. Stabilizziamo il debito, invece di volerlo ripagare, perché di risorse che defluiscono dal settore produttivo verso quello puramente speculativo ce ne sono fin troppe.