Come mai l’Italia fa parte del G8, il club dei paesi più industrializzati? La risposta è semplice. Per la sua industria metalmeccanica, per quella chimica, per la fabbrica italiana automobilistica di Torino. Gran parte di questo patrimonio industriale non c’è più, è stato dilapidato nel giro di un ventennio. L’industria alimentare è stata sminuzzata e poi travolta dal disordine e dagli scandali; il comparto elettronico-informatico svuotato dalla voglia di finanza dei suoi cavalieri d’industria. Ora è la volta della Fiat. Senza la Fabbrica (italiana) di automobili con sede a Torino, l’Italia rischia di ruzzolare fuori da un G8 che potrebbe tornare ad essere un G7: dentro la Russia, fuori l’Italia. Questo giornale non si è mai appassionato a quel prestigio nazionale; ma chi predilige i vertici mondiali rifletta alle conseguenze per il paese, se la Fiat dovesse finire come l’Olivetti.
Una drammatica questione industriale è giocata ai dadi, da oggi, tra due potenti. C’è Sergio Marchionne, responsabile della Fiat in nome delle banche che in buona misura la controllano; dall’altra parte gioca Rick Wagoner, a capo della General Motors (Gm), fino a quando non sarà scaricato dagli azionisti delusi. Da oggi, in un giorno qualsiasi, dei prossimi 5 anni, la Fiat potrà esercitare il suo famoso put, cioè imporre alla Gm di acquistare il suo settore auto. Nella Fiat, o meglio nelle banche che la sovrastano, c’è la convinzione che, senza auto, il bilancio migliorerebbe. Per Gm sarebbe disastroso sommare il bilancio Fiat auto al proprio, altrettanto brutto.
Così Wagoner non riconosce l’impegno e si ripromette di portare la Fiat in tribunale, a New York. Il fattore tempo è probabilmente dalla sua parte. La Gm potrebbe resistere un paio d’anni, ciò che Fiat non può fare; ma pagherebbe anch’essa prezzi altissimi. La situazione è apparentemente senza uscita e proprio per questo taluni osservatori prevedono: si metteranno d’accordo. Un pugno di milioni alla Fiat e Gm liberata dagli impegni. I dadi tornano in mano alla Fiat, ma sono sequestrati dalle banche: sono loro a giocare, sono loro che decidono che fare, come, cosa e e quando chiudere. Il ministro del welfare Roberto Maroni riesce perfino a scherzare: in un’intervista alla Repubblica afferma che lo stato non interverrà: avrebbe dato alla Fiat, nel corso degli anni, un milione di miliardi, cifra bastevole per acquistare la Gm intera. Chi dirà al ministro che con quella cifra di Gm se ne potrebbero acquistare una decina?
E’ difficile chiedere qualcosa a questo stato, impastoiato in Europa, a queste avide banche, ma qualcosa si dovrà pur fare. In primo luogo prendere tempo. Se poi le banche vogliono fare qualcosa di utile, salvare la maggiore industria nazionale e il suo indotto; e le varie attività connesse, in primo luogo la ricerca, offrano il credito necessario per continuare e contemporaneamente chiamino a raccolta le altre imprese italiane, come una volta sapeva fare Mediobanca. Inoltre, sarebbe opportuno liberarsi di casa Agnelli. Si può vivere e prosperare anche senza; la nostra quasi monarchia, come scrive il Wall Street Journal, costa troppo, a questi chiari di luna.
E’ semplice e quasi facile invece scegliere che auto fare e vendere. Deve essere un’auto davvero poco costosa e che consumi uno o al massimo due litri ogni cento chilometri. Un’auto leggera, povera di aggeggi inutili, ma sicura e affidabile: che insomma, come dice il proverbio, vada piano, sano e lontano. Un’auto, finalmente, vendibile in Italia e all’estero, completamente riciclabile e poco inquinante, nei limiti del possibile. Qui entra in gioco lo stato. La ricerca per un simile prototipo e poi la messa in opera di regole ambientali che consentano una difesa, non tanto dell’auto Fiat, ma della salute, della qualità della vita e dell’ambiente nazionale, spetta ad esso. Un bel programma, ma sarà d’accordo il presidente della Fiat e degli industriali, dall’alto della sua Ferrari?