UN PASSO AVANTI E DUE INDIETRO

Giancarlo Aresta In Italia, nel commentare la Risoluzione 1511 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, del 15 ottobre 2003, sono stati espressi giudizi da due diverse angolazioni. Alcuni hanno concentrato la propria attenzione sui fattori geo-politici, su come in essa si riflettono i cambiamenti nei rapporti di forza nel mondo. Altri invece – e tra questi i maggiori leader del centrosinistra, e prima di tutti D’Alema, Fassino e Rutelli – leggono la Risoluzione fondamentalmente nella chiave della legittimazione, ricavandone che l’occupazione anglo-americana in Iraq ha oggi un crisma di legalità. Quale di queste due letture è più corretta?
Umberto Allegretti Io direi intanto che le due letture, quella politica e quella giuridica, devono combinarsi, nel senso che il diritto – e soprattutto il diritto internazionale e quello della guerra e della pace in modo particolare – non può prescindere dalla identificazione del contesto politico. D’altra parte sicuramente il diritto, se ha una funzione – quando non viene strapazzato e distorto – pone alcuni vincoli all’azione politica. Da questo non segue, però, che l’azione politica deve necessariamente svilupparsi nel senso indicato da una Risoluzione adottata da un organismo internazionale, perché rimane sicuramente uno spazio di responsabilità dei singoli Stati. Direi, perciò, che bisogna proporsi insieme il doppio criterio di lettura. Sul piano metodologico mi sembra questa la risposta da dare.
In ogni caso nella risoluzione c’è un elemento di legittimazione? E di cosa? Della guerra anglo-americana? Dell’occupazione militare che ne è seguita? Del controllo esterno delle risorse di quel paese? Di un governo che è stato insediato dalla forza di occupazione militare ad libitum, senza cioè tener conto di alcun riconoscibile criterio di rappresentatività ? E in che limiti? E ancora: se il governo iracheno provvisorio acquista alla luce di questa Risoluzione il carattere di un’autorità legittima, dotata di un ampio riconoscimento internazionale, le forme di resistenza che in Iraq si stanno producendo si configurano forse tutte come una forma di terrorismo?
Siamo di fronte a un evento – e a una Risoluzione – oltremodo delicati. C’è un po’ di tutto quello che hai chiesto. In particolare, c’è una indiretta copertura, che non vuol dire legittimazione, dell’operato degli Stati Uniti. Questo è inevitabile. Ed era già avvenuto dopo la guerra in Kosovo e dopo la fine delle operazioni di guerra in Afghanistan. In questo senso, purtroppo, si registra una sconfitta. In ciascuno di questi casi, l’ordinamento internazionale ha subito un ripiegamento, una battuta d’arresto. Tutte le azioni unilaterali – e questo vale anche per la guerra della Nato in Kosovo – sono, infatti, fuori da un quadro, che si possa considerare legittimo e corretto. In queste occasioni, ogni Risoluzione posteriore, che non consista nel condannare e se possibile nel combattere praticamente contro ciò che è stato fatto, in qualche modo suona come un indiretto avallo. Però il fatto che sia indiretto è anche significativo. In questo caso, poi, è stato completamente evitato, molto più che nelle due circostanze precedenti, di legittimare ciò che è avvenuto. Si parte – mi pare – dalla situazione di fatto di fronte a cui oggi ci si trova e si prendono quei provvedimenti, che sembrano meno lontani dalla legittimità dell’azione internazionale in questa situazione.
Naturalmente neanche questa seconda cosa era facile. E lo dimostra il fatto, che qui si è finito col `mischiare’ l’azione della coalizione con un’iniziativa che vorrebbe essere nuova e di tipo davvero multilaterale. Non riuscendoci, per la verità. Perché l’occupazione militare – così come è oggi – in qualche modo è riconosciuta, e soprattutto perché sono gli Stati Uniti che, secondo la Risoluzione, dovranno riferire sugli sviluppi della situazione. Così si è finito con l’attribuire loro – anche se non in maniera diretta – la guida della Coalizione. Non è scritto che è il Comandante in capo statunitense che guida le operazioni, ma sappiamo tutti che è così. Questa sicuramente non è però una legittimazione accettabile dal punto di vista della Carta delle Nazioni Unite. Mi sembra chiaro che si sarebbe dovuto adottare una cesura completa – come è stato fatto in qualche altro caso – fra le forze che hanno operato come forze di guerra e di occupazione e quelle che invece sono inviate non tanto a consolidare la pace, perché non c’è pace in Iraq, ma a ristabilirla.
Per quanto riguarda, poi, il governo iracheno provvisorio, non si può evitare di riconoscere, un po’ brutalmente, che si tratta di un `governo fantoccio’, di un mandatario degli occupanti. Non persuadono in nessun modo né le forme con cui è stato selezionato e insediato né la sua condotta. Questo non implica che debba essere inevitabilmente asservito agli Stati Uniti; ma definirlo – come fa la Risoluzione – «broadly representative», ampiamente rappresentativo, sembra fuori da ogni realtà. Ed estraneo a qualsiasi criterio di effettiva legalità internazionale. Per cui, su questo terreno, è chiaro che bisognerà fare molti passi avanti; e perciò il fatto di mettersi puramente e semplicemente nelle mani di questo Consiglio per stabilire l’itinerario e le tappe del processo futuro mi sembra uno degli scacchi maggiori che hanno subito Francia e Germania, e in genere gli oppositori iniziali della Risoluzione. La sconfitta più rilevante sta nel non essere riusciti ad imporre le tappe precise di un ripristino di legalità agli Stati Uniti e al governo iracheno provvisorio o ad entrambi, anche se gli Stati Uniti non potranno sottrarsi a una loro responsabilità di offrire termini vicini di risoluzione della situazione.
Definita così la situazione, in un contesto in cui il controllo militare è affidato alle forze occupanti e ad altre forze che eventualmente si aggiungessero sotto il comando americano, e in cui si riconosce la funzione legittima di un governo che è stato insediato da questi, l’Onu, a cui si affida una funzione prevalente di assistenza alla popolazione e di consulenza nel processo costituente, non rischia forse di trovarsi impigliata nei conflitti tra settori rilevanti della società irachena e questo quadro di comando, che può essere da questi letto come ostile? Non c’è un azzardo dell’Onu nell’aver fatto a metà questa operazione?
Questo più che un rischio è una realtà. Destinata a riproporsi tutte le volte in cui le Nazioni Unite, venendo meno alle proprie norme statutarie, accettano di delegare ad altri la direzione delle operazioni.
Perché dici «venendo meno alle proprie norme statutarie»?
Perché dallo statuto dell’Onu si ricava con chiarezza che le operazioni che richiedono l’uso della forza devono avvenire sotto il comando delle Nazioni Unite. E solo in questo caso sono pienamente legittime. È un principio non derogabile, con forte valore normativo, che resta fermo anche se non è mai stato costituito il Comitato dei capi di Stato maggiore, cosa che del resto non è forse nemmeno augurabile. In alcuni casi – come in Somalia, dove pure è finita male -, le Nazioni Unite hanno tentato almeno di avere sul `campo’ un proprio rappresentante con l’incarico di dirigere le operazioni. In Iraq, niente di tutto questo.
Quanto pesa poi questa Risoluzione nell’offrire un argomento vero a chi domani, in Italia, sarà chiamato a votare sul mantenimento delle truppe italiane in Iraq? Ed è ragionevole che su di essa si fondi un cambiamento di indirizzo in merito, come sembra emergere in significativi settori del centrosinistra?
Ritengo – per le argomentazioni che ho avanzato prima – che questa deliberazione non costituisca la base per una legittima partecipazione militare italiana alla Coalizione. Inoltre, questo problema allude a un altro nodo, molto rilevante, che riguarda l’ordinamento costituzionale italiano. È il rapporto fra la prima e la seconda proposizione dell’Art. 11 della Costituzione italiana 1. Secondo un’interpretazione che è stata più volte proposta in campo politico – ricordo per esempio l’articolo di Casini su «Repubblica» del 26 ottobre 2002 – ed è stata spesso sottoscritta anche dai responsabili del centrosinistra, la seconda proposizione prevale sulla prima. Si sostiene, insomma, che una Risoluzione Onu in favore di una guerra legittimerebbe un impegno di truppe italiane in un intervento militare fuori del territorio nazionale, malgrado l’esplicito divieto, ripudio, espresso nell’Art. 11. Io credo invece che, anche se l’Onu avesse deliberato la guerra contro l’Iraq – che sarebbe stata una guerra preventiva anche se non unilaterale -, l’Italia avrebbe dovuto, in omaggio al suo Art. 11, esercitare lo stesso il suo sindacato di illegittimità sulla delibera dell’Onu, come ha sostenuto più volte questa rivista: e per primo Pietro Ingrao in diversi articoli e interventi. Infatti il primo comma dell’Art. 11 ha la nettezza e la chiarezza di un superprincipio – per usare un linguaggio che la Corte costituzionale ha usato per altri principi ma che si potrebbe usare anche per questo. E questo prevale sul secondo comma e obbliga il governo e il Parlamento italiano – non si limita, infatti, a renderlo possibile – a esaminare la legittimità della Risoluzione delle Nazioni Unite e a discostarsene.
Ora la situazione di oggi è indubbiamente un po’ meno netta che non nel mese di marzo. E si potrebbero trovare argomentazioni, come parecchi hanno fatto, per sostenere che siamo di fronte a una discontinuità fra le forze d’occupazione e l’azione multilaterale e che, in ragione di questo, siamo a posto almeno col secondo comma dell’Art. 11, ma forse anche col primo, nella misura in cui non c’è oggi in Iraq `guerra’ ma solo `ristabilimento della pace’. Sono radicalmente contrario a questa lettura, per le ragioni già esposte.
Resta, inoltre, il fatto che l’Onu si espropria della direzione delle operazioni. E, soltanto per questo chiaro difetto di legittimità, l’Italia dovrebbe in ogni caso negare la propria partecipazione. Ma, per concludere, ciò su cui mi pare che bisogna essere molto rigorosi è il fatto che il primo comma dell’Art. 11 è il vero superprincipio, che ci vieta in modo assoluto di partecipare a operazioni che contrastino col ripudio della guerra. Per cui, se questa è ancora una forma di guerra, come ho sostenuto prima, la conseguenza che se ne deve trarre è inequivocabile.
Questa Risoluzione rappresenta – o no – l’indice di un processo di restaurazione del principio della multilateralità, quindi della rivalutazione dell’Onu come titolare di un potere munito di effettività sulla pace e sulla guerra e sul riconoscimento credibile dell’indipendenza e della sovranità degli Stati. Su questo c’è una discussione. Tra chi dice che l’Onu è così piegata al comando Usa, e chi sostiene che con questa Risoluzione l’America ha dovuto chiedere un soccorso.
Ho già argomentato che se c’è una multilateralità non è una multilateralità che segua davvero la legittimità delle procedure e della sostanza. Qualche elemento di multilateralità sicuramente c’è, in questo senso non è del tutto falso che gli Stati Uniti, essendo stati costretti in qualche modo a ritornare alle Nazioni Unite, abbiano in qualche modo riconosciuto – dire reso omaggio è troppo – che l’Onu continua ad avere una funzione. Ma qual è la funzione a cui pensano debba essere relegata, non solo oggi con la `dottrina Bush’, ma già prima con Clinton? Gli Stati Uniti non è che vogliano per forza sopprimere l’Onu e cancellarla, o uscirne come fecero con la Società delle Nazioni. Vogliono conservarla come una delle tante opzioni a loro disposizione, da usare quando appare utile: e questo non è un gran riconoscimento dell’autorità delle Nazioni Unite.
Tuttavia non c’è dubbio che la Risoluzione 1511 segnala anche qualche elemento di debolezza nella posizione degli Stati Uniti, che, con evidenza, non sono in grado di condurre a buon fine i loro propositi senza piegarsi a una qualche collaborazione in sede internazionale. Mi è capitato di sentirmi, come tanti altri, molto frustrato quando è uscita questa delibera. Evidentemente è una Risoluzione che coloro che, come molti di noi, erano favorevoli nella fase precedente all’azione della Francia e della Germania, ma anche della Russia e della Cina, non possono condividere. Ci si sarebbe augurati che questi paesi continuassero a resistere alla pretesa degli Stati Uniti, a meno che essi non avessero accettato una netta discontinuità delle operazioni. Quindi siamo a mezza strada. Certo, su questioni così gravi bisogna evitare di essere così estremisti da voler il tutto o il nulla, anche se la situazione non è sicuramente soddisfacente e manifesta a sua volta la grande debolezza della Russia, che pare essere stata la promotrice della smobilitazione che ha portato a questa Risoluzione, e anche della Francia e della Germania, che non si sono sentite di continuare sulla strada giusta in qualche modo da sole.
Quando gli Usa e l’Inghilterra decisero di fare la guerra all’Iraq, nell’Onu questa scelta non fu contrastata solo dalla minaccia del veto di Francia, Russia e Cina, ma dall’opinione contraria di una netta maggioranza dei componenti del Consiglio di sicurezza. Oggi l’intero quadro è cambiato. Come va valutato questo fatto?
Quell’episodio bisogna continuare a valutarlo positivamente, anche se poi è rimasto isolato, e non è stato confermato da questa Risoluzione. È rilevante e significativo il fatto che nel mese di marzo gli Stati Uniti abbiano trovato il dissenso della Francia e della Germania, due grandi paesi dell’Occidente di cui uno dotato anche del potere di veto, ma siano per di più restati in minoranza, registrando la contrarietà anche di paesi deboli, debolissimi dell’Africa, e di paesi abitualmente soggetti all’influenza degli Stati Uniti come quelli dell’America latina. Questo evento non va svalutato solo perché non ha avuto uno sviluppo coerente. Segna una tappa, che potrà riproporsi in futuro: insegna che è possibile una decisione maggioritaria contro le grandi potenze (e ne abbiamo sentito qualche eco a Cancún). Naturalmente si tratta di sollecitare questo risultato con tutta la forza politica di cui si è capaci. Però si è registrata a marzo una vera novità: non mi pare che fosse mai avvenuto che gli Stati Uniti subissero una sconfitta così bruciante. Per questo non mi sono mai sentito di parlare di una totale umiliazione dell’Onu negli eventi di febbraio-marzo, ma, anzi, dell’emergere di una possibilità di vitalità, se non di una vitalità in atto.
Probabilmente, infatti, la ragione di fondo – al di là di quelle più contingenti – che ha impedito il coagularsi di una maggioranza attorno alla volontà degli Stati Uniti in febbraio-marzo, è che diversi paesi sentivano che se si fosse autorizzata un’operazione di guerra unilaterale e preventiva come quella, tutti i paesi del mondo sarebbero stati in futuro esposti a una violazione della loro sovranità troppo evidente e troppo forte. Oggi, invece, c’è meno questo pericolo e quindi non ci si sente fino in fondo di sviluppare con rigore quella iniziativa.
Però questo significa, insomma, che l’Onu continua a essere una sede in cui una qualche dialettica mondiale è possibile – non dico né probabile né facile, però pensabile e possibile. Per questo non bisogna smobilitare dalla sede Onu, non bisogna dire che l’Onu è la nuova Santa Alleanza, come hanno detto anche alcuni studiosi, ma bisogna insistere nel cercare di rivalutarne l’azione, rinnovandola, anche se se ne vede tutta la difficoltà.
In questa vicenda, così come del resto nella tragedia che si sta consumando in Palestina, emerge in qualche modo l’impressione di un’assenza dell’Europa come protagonista politico di una fase delicatissima dell’equilibrio del mondo. Anche in un momento in cui l’America di Bush è costretta a fare i conti con i costi della guerra ed è in difficoltà, l’Europa è stata un po’ ai margini, in silenzio. E anche i paesi europei che hanno avuto un qualche ruolo si sono mossi fuori dalla Ue. Che giudizio ne dai? E, inoltre, il processo che tende a dotare l’Europa di un nuovo assetto costituzionale, di nuove forme di coordinamento e di governo dell’Unione europea, ha in sé degli elementi che possono dare risposte ai problemi di un protagonismo politico dell’Europa o è incamminato su strade che sono insufficienti o inadeguate per rispondere a questa domanda?
È chiaro che l’Europa non è riuscita ad assumere decisioni comuni per due ragioni. Sul piano politico, per il dissenso di principio e di fatto molto fermo dell’Inghilterra, che avrebbe comunque impedito di prendere una posizione di contrasto con quella degli Stati Uniti. E sul piano giuridico, perché nell’ordinamento europeo tuttora vigente c’è sicuramente l’idea che tutte le questioni di politica estera possano essere oggetto di una presa di posizione e di una iniziativa unitaria; ma sia la debolezza dei principi posti alla base della Ue, sia la complessità dei meccanismi di decisione, che richiedono l’unanimità, rendono difficile la formulazione di decisioni e scelte comuni. Tanto è vero che la Francia e la Germania, pur nella loro opposizione abbastanza ferma, di netto contrasto con gli Stati Uniti sulla guerra in Iraq, non hanno potuto neanche pensare di convocare e di ottenere una decisione conforme del Consiglio d’Europa e del Consiglio dei ministri.
Per il futuro. Nella Bozza di trattato oggi in discussione, si fanno dei passi avanti. E qualche passo avanti c’è anche nei contenuti, o almeno nella loro articolazione. Però il merito mi lascia molto perplesso, perché intanto la pace e la cooperazione internazionale anche in campo economico non sono elencati nell’Art. 2 fra i `valori’ dell’Unione. E questo non è poco: perché i valori sono decisivi, per definire un orientamento generale, una linea di condotta. Poi è vero che l’Art. 3 parla di obiettivi, parla della pace, e anche, ma in forma frammentaria, dell’azione economica contro l’ingiustizia dei rapporti Nord-Sud, ma li definisce come `traguardi’, non come principi inderogabili, esponendosi perciò a mistificazioni e a letture contrapposte, come, ad esempio, quella di chi sostiene, in modo aberrante, «se vuoi la pace, prepara la guerra».
Infine, nella Bozza di trattato della Ue, nella Parte terza – che prevale sulle Parti prima e seconda fissandone il significato e definisce, tra l’altro, gli strumenti relativi alla `azione esterna’ – ci sono indicazioni largamente negative, perché si privilegiano in molti punti le missioni militari, si accetta perfino con parole molto simili a quelle usate dai documenti e dai rappresentanti politici statunitensi l’idea che contro il terrorismo bisogna agire in via preventiva e con mezzi anche militari.
Anche per questo, forse è il caso che non facciamo nostra l’idea che questa è una vera Costituzione europea, perché così la santificheremmo e la irrigidiremmo, mentre forse è opportuno considerarla come uno dei tanti trattati, certo più articolato, più preciso, più funzionale dal punto di vista dell’edificio giuridico e anche di alcuni profili politici generali rispetto ai precedenti, ma che non è ancora a un livello costituzionale adeguato. Per cui è utile continuare a tenere aperto – come in passato – il processo di ulteriore modifica dell’ordinamento europeo, anche se in questo purtroppo non ci aiuta la Parte quarta, perché non stabilisce procedimenti di revisione sufficientemente duttili, come anche altri hanno già notato.
Nella fase in cui gli Stati Uniti hanno fatto la scelta di guerra in Iraq, di fare dell’Iraq una delle tappe di quella che definiscono `guerra preventiva’ contro il terrorismo, si è sviluppato nel mondo uno straordinario movimento per la pace, che ha avuto una grande ampiezza e una diffusione effettivamente planetaria. Oggi quella fase della guerra è conclusa, ma l’Iraq non è pacificato in nessun modo, e ci troviamo di fronte al fatto che l’occupazione militare degli Stati Uniti in Iraq in qualche modo verrà accompagnata da un’iniziativa dell’Onu. Vorrei chiedere: il movimento per la pace ha ragioni per tornare in campo oggi? E quali potrebbero essere i suoi obiettivi più essenziali?
Eccome! Ha ragioni serie per stare in campo, come prima. In febbraio-marzo e anche dopo, durante la guerra, il movimento per la pace ha manifestato il nascere – sarei d’accordo su questo con Habermas, che ne ha parlato più volte – di uno spazio pubblico europeo, e in parte anche mondiale, perché non va dimenticato che anche in America Latina c’è stato un movimento pacifista, e naturalmente anche negli Stati Uniti, anche se non così imponente come in Europa. Si è segnato così un passaggio importante verso la creazione davvero di una `società internazionale’, che si prefigge di controllare e di contrapporsi, quando occorre, ai poteri formali istituzionali mondiali. E bisogna farlo anche oggi. Il fatto che il movimento non sia oggi pienamente in campo lo apprezzerei nei termini stessi di Cacciari 2, cioè il movimento attraversa inevitabilmente, come ogni movimento, delle fasi un pochino carsiche. Ma ho l’impressione che le sue risorse restino grandi, come dimostra la Perugia-Assisi. L’opposizione dovrà essere ispirata agli stessi principi di cui abbiamo parlato prima, cioè la rivendicazione dei grandi principi della Carta delle Nazioni Unite, la contestazione delle sue violazioni, la richiesta all’Europa di essere più coraggiosa sul piano politico e, ancor più, di giuridicizzare il principio del ripudio della guerra. Io penso che lavorando su questi temi qualche ulteriore risultato si potrà avere. Certamente poi ci sono dei punti concreti, su cui concentrarsi, come la denuncia della terribile situazione della Palestina, che veramente rappresenta forse, fra tutte le illegittimità commesse dall’Onu nella sua storia, una delle più gravi: e mi riferisco al fatto di non aver dato corso alle Risoluzioni che pure esistevano. Naturalmente qui hanno pesato i veti, anche recentissimi, degli Stati Uniti, mentre l’Europa è stata troppo propensa a proteste un po’ retoriche, senza azioni conseguenti.

note:
1 L’Art. 11 della Costituzione italiana afferma: «L’Italia ripudia la guerra come mezzo di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
2 «La Repubblica», 26 ottobre 2003.