Il quadro che ci presenta Maurizio Ricci nella prima parte della sua inchiesta sull’Italia (definizione economica delle classi, ricchezza nazionale) pubblicata su la Repubblica di lunedì 13 giugno è la fotografia, colorita ma fedele, di un Paese bloccato, retto su di un capitalismo incoerente con se stesso che produce ma non reinveste.
È il trionfo della rendita parassitaria, la negazione di quella semplice logica del capitale borghese che per aumentare il profitto utilizza l’investimento.
Di conseguenza le classi diventano caste ed il Paese nel suo complesso assomiglia sempre più ad una signoria medievale in cui alla rigida catena vassallatica viene sovrapposta l’odierna sostanziale immobilità sociale delle classi.
È una provocazione, ma occorre prenderla sul serio.
Alla fine degli anni Ottanta l’1 per cento più ricco aveva in mano il 10,6% del patrimonio nazionale, nel 2000 (secondo una ricerca del Servizio studi della Banca d’Italia) ne possiede il 17,2 %. Oggi il 10% delle famiglie più ricche della popolazione controlla quasi metà della ricchezza totale del Paese.
Si definisce così, nella realtà delle cifre, una piramide della ricchezza in cui la mobilità sociale, soprattutto verso l’alto, è ridottissima ed affidata il più delle volte a meccanismi di promozione sociale ancora una volta di stampo feudale.
La totale dipendenza e subordinazione dei lavoratori dal piccolo padrone (il signore locale), imposta negli ultimi anni dalla flessibilità in materia di legislazione sul lavoro, in virtù di una logica oggettivamente trasversale agli schieramenti politici di riduzione delle tutele a partire dall’eliminazione violenta della garanzia di una dimensione collettiva di confronto tra le parti sociali (in altri termini, la frammentazione e la parcellizzazione di settori importanti della classe operaia), ricorda da vicino il meccanismo di soggezione castale.
Ed è curioso pensare che, sia nel luogo di lavoro sia nella comunità, l’individuo è sempre più, in questo capitalismo di questa Italia arcaica e neo-feudalizzata, sottoposto a poteri di banno diversi e frazionati, accavallati e parcellizzati.
Si rischia di perdere, insieme ad un capitalismo che dia quantomeno l’illusione dello sviluppo e della produzione, il senso di una sovranità statuale, pienamente moderna, che non ceda ai privati la gestione dei rapporti tra le classi e il potere arbitrario di definire le strutture e le dinamiche sociali.
Ripeto: alcune provocazioni vanno prese sul serio. E l’immagine di un Paese fermo sul piano economico ed immobilizzato sul piano sociale va osservata con cura.
La risposta può essere un disegno a matita rossa tracciato dalla sinistra e dal movimento operaio e sindacale: rilanciare con forza, attraverso la redistribuzione della ricchezza nazionale e la difesa del potere d’acquisto dei salari, le capacità di sviluppo – non di moltiplicazione della rendita – del Paese.