Un Paese che vive a credito

I pochi mesi che ci separano dalle elezioni politiche non saranno facili. Le forze che si stanno muovendo per impedire o per condizionare la vittoria del centrosinistra sono tante e tutte puntano a evitare che il nostro partito possa svolgere quel ruolo di forza che lavora per dare all’Italia qualcosa di più di uno schieramento elettorale: un progetto e una guida.
Il tema di fondo della politica italiana resta sempre quello: la tentazione neocentrista, figlia della debolezza di un sistema politico che non è stato in grado di indicare al paese chiare alternative e di conseguenza, il peso abnorme della oligarchia economica e dei poteri di fatto. Non c’è bisogno di troppe analisi, è stato detto tutto sulla gravità del tentativo di mettere sotto accusa i Ds per ragioni «morali».
Ma quando appare così clamoroso non solo il cinismo ma la strumentalità di queste accuse il problema politico che si apre per i Ds non è difendersi ma che fare per dare più credibilità alla prospettiva di un’alternativa basata sulla unità delle forze democratiche. Se questo è il tema allora dobbiamo anche riflettere su cosa sta succedendo ai vertici del potere economico. Perché anche qui quando la violenza dello scontro arriva a mettere in gioco il prestigio di un’istituzione come la Banca d’Italia, a trasformare un grande giornale come il Corriere della Sera in un foglio scandalistico, a usare le intercettazioni telefoniche in quel modo inquietante, questo vuol dire che non si tratta solo della volgarità dei nuovi ricchi e della oscura origine dei loro soldi, ma della preoccupante fragilità del capitalismo italiano, aggravata dal venir meno di quel sistema di comando delle «grandi famiglie» governato nel salotto buono di Mediobanca da Enrico Cuccia e da Gianni Agnelli. I due grandi vecchi sono morti e una delle stampelle (il protezionismo della lira debole) è finita con l’euro e l’altra (il protezionismo dello Stato e dell’Iri) è stata smontata dai governi dell’Ulivo. Per cui il compito nostro – vorrei dire al signor Montezemolo – non è prendere lezioni di cultura del mercato ma indicare come l’Italia può uscire dal vicolo cieco in cui la sua classe dirigente l’ha cacciata.
Questo è il nodo da sciogliere. È politico. È la stridente contraddizione tra un grande patrimonio sociale e culturale fatto di risorse e di valori quale poche ragioni del mondo possiedono e una tale mancanza di vita politica e di fiducia nel futuro per cui il paese si è seduto, non innova, non fa figli. In più da anni si assiste alla vergogna per cui a un aumento dei profitti delle imprese (anche di quelle industriali) ormai ai massimi storici, non ha corrisposto nemmeno in parte un aumento degli investimenti produttivi. E poiché la quota dei salari sul valore aggiunto è diminuita, è evidente dov’è finita questa montagna di soldi. È finita in rendite, speculazioni, sprechi, e in quei lussi pacchiani che i rotocalchi ci mostrano. Questa è la contraddizione. Ed essa non può essere sciolta né da un inciucio tra Rutelli e Casini, né da uno schieramento progressista troppo frammentato, non in grado di dire al paese come sostituire le antiche certezze e su quali progetti puntare.
Vogliamo guardarli bene in faccia i problemi che dobbiamo affrontare? Un paese che per quasi il 40% (il Mezzogiorno) consuma più di quello che produce, che ha un tasso di attività per cui solo un italiano su due lavora (a fronte del 60-70% della media occidentale) che, dato l’invecchiamento della popolazione, tra cinquant’anni l’Italia che noi conosciamo non ci sarà più, e al suo posto ci sarà un paese molto più piccolo, privo di qualcosa come un quarto di quella che è oggi la sua popolazione lavoratrice. E non parlo di altri «gap» come il livello medio di istruzione, la dotazione di servizi, la tecnologia, la certezza della legge eccetera. È chiaro che un paese così non è in grado di competere in un’economia che si è mondializzata, dove la lira non c’è più e quindi non può essere svalutata per cui il problema centrale del programma sembra chiaro. Siamo ben al di là della vecchia disputa tra Stato e mercato. L’uno senza l’altro non funziona. Il problema economico diventa inseparabile da quello politico perché un paese come questo è destinato a decadere e a impoverirsi se non riesce ad aumentare la produttività totale dei fattori, cioè dell’efficienza complessiva del sistema a cominciare dal capitale sociale e dal capitale umano. Altro che tagliare i salari.
Ma come si può fare questo se non c’è una forza capace di misurarsi con quel nodo storico-politico che la classe dirigente nel suo insieme da oltre venti anni non riesce a sciogliere? Il tema è questo. Non è la mancata modernizzazione quanto il modo del tutto peculiare come essa è avvenuta, cioè sulla base di fattori e condizioni interne e internazionali che non esistono più.
Li ricordo questi fattori solo per dare il senso di quale grumo di interessi e compromessi bisogna affrontare. Un peculiare modello di economia mista cioè quell’intreccio singolare tra un capitalismo privato dominato da una ristretta oligarchia che non rischiava i propri capitali ma veniva protetta e finanziata dalla banca pubblica (non a caso pubblica, a differenza di ogni altro paese occidentale) è il ruolo dell’industria di Stato senza di che la nostra presenza in alcuni settori avanzati non sarebbe mai esistita.
E accanto a questo una proliferazione di piccole imprese non sorrette da politiche industriali ma favorite da una serie di franchigie, non solo fiscali. Ma si pensi anche al modo come sono convissuti i fenomeni straordinariamente contraddittori: una biblica migrazione che ha fornito all’industria del Nord manodopera a basso costo e la sorprendente capacità di milioni di persone di mettersi in proprio e fare impresa trasformando interesse regioni sulla base di un originale incontro tra capacità di competere e di scoprire nuovi mercati e fattori di coesione sociali forti. Così era cresciuta l’Italia: sulla base di condizioni interne e internazionali che quasi di colpo sono venute meno. Io continuo a chiedermi come mai non si capisce che anche per conquistare il centro si impongono cambiamenti molto profondi.
Sono quindi i fatti, la dura sostanza storica dei fatti che impongono un ripensamento radicale rispetto alla pseudo cultura riformista di questi anni. Non basta ripeterci che il vecchio blocco sociale «lavorista» non c’è più. Lo sappiamo. Il problema politico è cosa mettere al posto di quella grande costruzione materiale (politica, oltre che economica e sociale) di quel modello italiano che ho tratteggiato e al cui interno si è organizzata e regolata la vita della prima Repubblica, si è definito il rapporto tra distribuzione delle risorse e organizzazione dei poteri, il compromesso tra mano pubblica e forze di mercato. Non è poco, è una nuova idea di Stato e società che bisogna mettere in campo. Non vogliamo farlo?, si sappia che non c’è futuro per un paese che consuma, come ormai avviene da anni, una parte del suo patrimonio senza ricostituirlo. Per cui sembriamo ancora ricchi, specie in termini di consumi opulenti e di modello di vita, proprio perché consumiamo anche il patrimonio di infrastrutture, di ricchezze naturali, di capacità di aggregazione civile.
Abbiamo vissuto e viviamo a credito questa è la verità, senza mettere in cantiere i grandi progetti, accettando allegramente l’emancipazione dal lavoro delle nuove generazioni. Perciò il neocentrismo non funziona: perché una svolta è una necessità della nazione.