“ Sono un milione e 183mila i giovani sotto i 35 anni che non hanno lavoro, 538.000 dei quali vive al Sud. Tra il 2008 e il 2011, negli anni della crisi, gli occupati under 35 sono diminuiti di 926.000 unitá. Ma l’Italia si aggiudica anche il record negativo nell’Unione europea per la fascia di età tra 15 e 24 anni: 29,6%. La media Ue é 21%.
La situazione denunciata nel rapporto sulla disoccupazione giovanile realizzato dall’Ufficio studi di Confartigianato conferma e rafforza i dati diffusi a fine luglio dallo Svimez sul Mezzogiorno, dove due under 35 su tre sono senza un’occupazione e oltre il 30% dei laureati under 34 non lavora e non studia. Se a livello nazionale la disoccupazione di chi ha fino a 35 anni si attesta al 15,9%, le cose vanno molto peggio nel Mezzogiorno, dove il tasso sale a 25,1%, dice il Rapporto di Confartigianato.
La Sicilia è la regione con la maggior quota di giovani disoccupati, il 28,1%. Seguono la Campania con il 27,6%, la Basilicata con il 26,7%, la Sardegna con il 25,2%, la Calabria con il 23,4% e la Puglia con il 23%.
Confartigianato stila anche una classifica per province che rivela come a Carbonia-Iglesias i giovani under 35 in cerca di occupazione arrivino a rappresentare addirittura il 38% della forza lavoro. Sono il 35,5 ad Agrigento e il 37,5& a Palermo. Nelle posizioni alte domina Bolzano, con un tasso dii giovani senza lavoro pari al 3,9%, seguita da Bergamo con il 5,6% e da Cuneo con il 5,7%.
Ma la difficoltà di entrare nel mercato del lavoro non riguarda soltanto i giovani. Il Rapporto rivela un peggioramento progressivo della situazione anche per gli adulti. La quota di inattivi tra i 25 e i 54 anni arriva al 23,2%, a fronte del 15,2% della media europea, e va crescendo: tra il 2008 e il 2011 è aumentata dell’1,4% mentre in Europa è diminuita dello 0,2%.”
Basterebbe leggere questi dati, riportati qui testualmente dal sito del Sole 24 Ore, per avere una minima idea del disastro generale che sta attraversando l’Italia e della condizione drammatica in cui versano milioni di lavoratori e lavoratrici nel nostro Paese.
A fronte di questa situazione, appare un vero e proprio gesto di “eversione sociale” la Manovra Finanziaria proposta dal Governo Berlusconi, una manovra depressiva, socialmente iniqua, inefficace e antisindacale. Un provvedimento da oltre 45 miliardi che andrà a sommarsi ai 47 dell’intervento di luglio, per un impatto complessivo che supererà i 90 miliardi da qui al 2013.
Una manovra che colpisce i diritti e il salario dei lavoratori dipendenti, taglia i servizi sociali erogati dai Comuni e dalle Regioni, non colpisce l’evasione fiscale e la corruzione, non introduce una vera patrimoniale ed una vera lotta alle speculazioni finanziarie e non delinea nessuna nuova azione di politica industriale affermando l’idea tragica per il Paese che, per uscire dalla crisi bisogna tagliare i diritti, il Contratto Nazionale e lo Statuto dei lavoratori. Una manovra in contrasto con il pronunciamento popolare avvenuto nei referendum dello scorso giugno, che riapre alla privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici.
Insomma, dopo tre anni di mancato riconoscimento della crisi, di “va tutto bene Madama La Marchesa”, di conti sbagliati, di nessuna lotta all’evasione e di assenza di stimoli all’economia, il Governo drammatizza all’improvviso la situazione, accelerando al 2012 la prima sostanziosa correzione finanziaria ma rinviando a non prima del 2015 la ripresa del livello del PIL pre-crisi (2007).
Sul merito specifico dei provvedimenti, vi rimando all’editoriale di V. Giacchè pubblicato pochi giorni or sono in l’Ernesto online che bene dettaglia gli effetti devastanti sul mondo del lavoro e sui diritti dei lavoratori. Certo è che non si era mai visto che per decreto legge un governo provasse a cancellare l’esistenza del Contratto Nazionale e aprisse alla libertà di licenziare. Inoltre il governo fa una legge “ad aziendam” pro Fiat violando principi costituzionali e la carta europea dei diritti dell’uomo.
Tutto ciò all’interno di una manovra economica classista che per decreto colpisce in particolare i lavoratori dipendenti sia privati che pubblici, i pensionati ed i giovani, attaccando i principi democratici del nostro paese e non affrontando i nodi e le ragioni che hanno prodotto il debito pubblico e la crisi del nostro Paese.
Si continua a non voler vedere che la crisi finanziaria Italiana, Europea e Mondiale è una crisi strutturale e di sistema e si pensa di “aggiustare il sistema” cancellando i diritti dei lavoratori e restringendo gli spazi di democrazia nei luoghi di lavoro. A questo proposito alcune cose vanno dette con chiarezza: non c’è neppure un timido nesso tra le cancellazioni dei diritti e eventuali misure per fare ripartire la crescita. Lo dice anche la commissione crisi del parlamento europeo. A metà luglio dopo due anni di lavoro ha ribadito che per sostenere la ripresa bisogna puntare sulla qualità del lavoro, ridurre frammentazione e precarizzazione e investire sulla formazione. Non si può in alcun modo attribuire la crisi all’impossibilità di licenziare senza giusta causa. Questa è una cosa che riguarda solo la dignità di chi lavora. Si tenta di mettere il lavoratore nella posizione di potere subire una ingiustizia. Altro che crescita.
Nel dibattito sulle nuove norme in materia di lavoro recate dalla manovra d’agosto, autorevoli commentatori si sono lasciati andare a pesanti castronerie che non possono essere più accettate. Si e’ detto, per esempio, che la precedente legislazione non consentiva ad una azienda in crisi economica o con esigenze strutturali di effettuare licenziamenti. Non e’ vero. Le riduzioni di personale sono disciplinate dalla legge n.233 del 1991 che consente l’eliminazione dei cosiddetti esuberi e si limita a richiedere all’azienda di informare preventivamente le organizzazioni sindacali ed il Ministero del Lavoro della portata e delle ragioni del licenziamento collettivo, nonché di applicare criteri oggettivi nella scelta del personale da licenziare. Una normativa che e’ stata interpretata dalla giurisprudenza in base al criterio del rispetto della discrezionalità in materia organizzativa e che ha consentito alle imprese italiane di ridurre drasticamente i costi del personale. Per giunta la legge 233 del 1991 e’ stata introdotta in applicazione di una direttiva dell’Unione Europea. Non e’ chiaro che fine farà questa legge, ma e’ certo che, ove alle nuove norme dovesse attribuirsi una facoltà di deroga, consentendo, per esempio, di non applicare criteri oggettivi nella scelta dei licenziandi, essa risulterebbe in contrasto anche con la normativa europea e per ciò solo incostituzionale.
Altra panzana propinata ai telespettatori e’ che, per effetto dell’articolo 18, non fosse possibile licenziare un lavoratore che, durante un’assenza per malattia, si fosse dedicato ad attività di istruttore di ginnastica in una palestra. La giurisprudenza e’ ferma nel ritenere legittimo il licenziamento del furbo che danneggia il duo datore di lavoro abusando dei suoi diritti.
Il fatto che si ricorra a simili argomenti significa che le reali ragioni della manovra d’agosto vanno rinvenute nel desiderio di riportare indietro l’orologio della storia, riaffermando la legge del più forte e lasciando il lavoratore alla merce’ di compiacenti intese aziendali, sottoscritte da rappresentanze di comodo, laddove per il sistema giuridico italiano certe garanzie fondamentali non possono essere intaccate neanche dalla contrattazione nazionale. Alle “specifiche intese” previste dall’articolo 8 del decreto legge si vuole attribuire il potere di disporre non solo sulle conseguenze dei licenziamenti illegittimi, ma anche in una serie di altre materie, come i contratti a termine e le mansioni. Ma questa mano libera e’ vietata dalla nostra costituzione e dalla Carta Europea che tutelano i diritti fondamentali dei lavoratori.
Questo è in realtà quello che è in gioco. A tutto ciò si deve rispondere con fermezza, cominciando a rimettere in discussione il brutto accordo di Luglio firmato tra le parti sociali e il Governo, sul quale peraltro già abbiamo detto. Quel documento era ambiguo e annunciava principi astratti senza scendere nel concreto, lasciando intravedere molte più ombre piuttosto che poche luci. Ma col passare del tempo è apparsa chiara a tutti la divergenza tra organizzazioni che rappresentano interessi opposti, come era del tutto ovvio. La CGIL ne prenda atto, prenda le distanze dalle ipotesi del governo e ricominci a mobilitarsi.
Lo sciopero generale di Settembre è il primo e giusto passo da compiere in tale direzione.
Alle forze della sinistra ed in particolar modo a noi comunisti spetta il compito di contribuire alla riuscita di questo sciopero, sostenendo la CGIL anche nei confronti di quelle forze come il PD che, molto pilatescamente, ondeggiano tra la critica severa per la scelta della sciopero ed un timido sostegno.