Sono due milioni, come 10 anni fa, nonostante convegni, simposi e politica ci spieghino che non esistono più. Producono ricchezza per il paese e profitti per le imprese mentre i loro salari sono fermi a mille euro o poco più. Stanno tentando di rinnovare il contratto con un interlocutore-antagonista che vorrebbe cancellarlo e un governo che con il protocollo del 23 luglio lo ridimensiona attraverso un perverso meccanismo di sgravi fiscali che incentivano il lavoro straordinario, dunque l’allungamento dell’orario di lavoro. Alla faccia dei giovani e dei precari in nome dei quali si pretende di ridurre diritti e certezze a chi ce li aveva, almeno in parte.
Dunque, cosa c’è di strano se di fronte a un accordo che per molte parti ricalca le scelte del governo Berlusconi sulla precarietà, il mercato del lavoro e le pensioni, il comitato centrale della Fiom ieri non l’ha approvato, con un voto che sfiora l’80% dei dirigenti? Strano, semmai, è che le confederazioni sindacali l’abbiano firmato – Guglielmo Epifani per presa d’atto nella parte relativa al welfare. La mancata approvazione, la si voglia giudicare come si vuole, è il prodotto di un giudizio sindacale sul testo che sarà sottoposto alla valutazione di tutti i lavoratori e i pensionati. Perché votare no, per la Fiom, significa non condividere il protocollo e non ha a che fare con l’intenzione di sorreggere o far cadere il governo. Che governo di centrosinistra è mai quello che esorcizza il conflitto sociale? E’ naturalmente legittimo, normale che chi nella Cgil – la grande maggioranza del suo gruppo dirigente – condivide i termini del protocollo ne chieda l’approvazione dei lavoratori. Chi questo pensa dovrà spiegare le sue ragioni, a differenza di chi non lo pensa e che per dirigere un’assemblea dovrà comunque sostenere le ragioni di chi è per il sì. Quel che non è pensabile, in un sindacato che si vuole autonomo dai padroni, dai partiti e dal governo, è che il sostegno al protocollo sia giustificato dall’intenzione di difendere il governo (da se stesso, peraltro). E poi, ammesso e non concesso che compito di un sindacato sia difendere un governo presunto amico, non si difenderebbe meglio richiamandolo ai suoi impegni con gli elettori?
Noi pensiamo che la Fiom abbia ragione. Ed è naturale che molti dirigenti e militanti della Fiom abbiano dato la loro adesione alla manifestazione del 20 ottobre. Hanno aderito perché ne condividono i contenuti: così come votano sul merito, manifestano sul merito. E il merito dell’appuntamento di ottobre concerne questioni materialissime e valori al tempo stesso. Chi scenderà in piazza il 20 non ha in testa il governo, il Partito demoratico, la «cosa rossa» ma la lotta alla precarietà, il sistema pensionistico, i diritti, la pace, il modello sociale e ambientale che troppo poco varia al variare degli esecutivi.
Il voto della Fiom apre un’opportunità alla politica. Chi teme il populismo di chi grida tutti a casa perché tanto sono tutti uguali, dovrebbe sforzarsi di coglierla.