Un “new deal” per il caffé?

Il prezzo del caffé è crollato, negli ultimi tre anni: 60% in meno. E’ il livello più basso degli ultimi trent’anni. Non ve ne siete accorti? No, perché stiamo parlando del prezzo del caffé grezzo sul mercato internazionale delle materie prime: quello torrefatto e impacchettato, che compriamo al supermercato o beviamo al bar, non è calato affatto. E questo significa che è aumentata in modo drastico la differenza tra il reddito dei coltivatori di caffé e quello delle aziende che lo lavorano e ce lo vendono.
“La crisi del mercato del caffé sta producendo profitti record per alcuni e povertà di massa per gli altri”, sottolinea Oxfam, organizzazione britannica di cooperazione internazionale per lo sviluppo. Oxfam ha analizzato l’intera filiera dal caffé e ha diffuso il suo rapporto ieri a Londra, proprio alla vigilia della prima “Conferenza mondiale del caffé”, che da oggi riunisce nella capitale britannica rappresentanti dell’industria, dei commercianti e dei paesi produttori. Tanto per cominciare, il rapporto sottolinea che il crollo del prezzo della materia prima ha conseguenze devastanti per i contadini produttori: milioni di persone stanno precipitando della povertà estrema, con conseguenze gravi per l’accesso alla sanità e all’istruzione e per la stabilità sociale. “C’è il rischio reale che la crisi (del mercato del caffé) possa minare gli sforzi per raggiungere gli obiettivi di sviluppo umano al 2015”, avverte Oxfam. Poi sottolinea che industria e distribuzione nei paesi ricchi hanno guadagnato enormemente dal crollo dei prezzi: cita ad esempio Nestlé (primo produttore di caffé solubile), con profitti oltre il 20% nel 2000, e la catena Starbucks (il caffé-bar nordamericano) che ha dichiarato profitti del 41% nel primo quarto dell’anno.
Dunque la “crisi” è tale per i produttori, ma non per i trasformatori-distributori. Il motivo è che il prezzo del caffé grezzo conta per meno del 7% del prezzo al consumo nei paesi ricchi. Il resto, oltre il 90%, va all’industria di trasformazione e alla distribuzione (e una piccola parte agli intermediari esportatori). Il crollo è dovuto alla sovrapproduzione, che ha aumentato offerta e stock mentre il consumo è stagnante. Tutto questo ha cause complesse, tra cui il fatto che dall’89 i paesi produttori non sono più arrivati ad accordi sulle rispettive quote di produzione; allora molti hanno messo sul mercato gli stock, e del resto molti hanno incoraggiato la produzione interna per aumentare gli introiti dell’export (spesso anche spinti da organizzazioni finanziarie come il Fondo monetario o la Banca mondiale, con la loro eterna ricetta di crescita guidata dalle esportazioni). Senza contare che nuovi paesi produttori si sono aggiunti a quelli tradizionali (nell’ordine Brasile, Colombia, Vietnam, Indonesia, Messico, India, Guatemala, Costa d’Avorio, Etiopia, Uganda). Così all’inizio degli anni ’90 il prezzo del caffé grezzo è sceso del 50%, è un po’ risalito nel ’94, è di nuovo sceso… I grandi acquirenti come Nestlé si difendono da fluttuazioni eccessive comprando sul mercato dei futures. Ma per i produttori c’è poco da fare.
Qualcosa da fare ci sarebbe, per la verità. Ieri a Londra si è riunita la Acpc, Associazione dei paesi produttori di caffé. Un anno fa avevano concordato di non mettere sul mercato il 20% della produzione (10 milioni di sacchi da 60 kg), per far salire il prezzo. Ieri ha constatato che il piano ha funzionato solo al 70%, cioè dall’ottobre 2000 sono stati tolti dal mercato 7 milioni di sacchi (pesano i disaccordi tra latinoamericani e asiatici, e poi non tutti aderiscono all’associazione: non il Vietnam ad esempio, primo produttore di robusta).
Ma i paesi industrializzati (acquirenti) hanno la loro responsabilità, sottolinea Oxfam: in primo luogo per non aver mai messo la crisi del mercato delle materie prime all’ordine del giorno. Così, propone di distruggere 15 milioni di sacchi di caffè di qualità più bassa. E poi: oggi il prezzo indicativo del caffé (calcolato sulla media delle varietà arabica, più pregiata, e robusta, meno pregiata) è di 49,97 cents di dollaro la libbra, cioè quasi mezzo chilo. Oxfam propone un prezzo minimo di un dollaro alla libbra, cioè il doppio.