Un irregolare su due è nel Mezzogiorno

Per loro è impossibile comprare casa e formare una famiglia; non hanno facilitazioni per la maternità, né accesso a percorsi di formazione professionale; sono sottopagati e non avranno una pensione; lavorano senza le tutele per la sicurezza e soprattutto sembrano rassegnati alla loro condizione di precarietà. Sono molte, spesso insormontabili, le difficoltà per i circa tre milioni di lavoratori irregolari che vivono nel nostro paese. E a dirlo, questa volta, non sono i numeri, ma chi questi problemi li vive giorno per giorno. Non a caso s’intitola “I volti del sommerso: percorsi di vita dentro il lavoro irregolare” il rapporto dell’Ires (l’istituto di ricerche della Cgil), illustrato oggi a Roma alla presenza del ministro del Lavoro Cesare Damiano, con cui si è cercato di restituire al fenomeno una dimensione più “umana”. Ne è emersa una realtà allarmante: il “lavoro nero” cresce, soprattutto nel Mezzogiorno, e porta con sé una serie di problemi che investono pesantemente il vissuto quotidiano.

“C’è comunque la speranza che la situazione migliori, perché i provvedimenti della finanziaria 2007 concertati con i sindacati indicano l’inizio di un’inversione di tendenza”, ha detto il presidente dell’Ires Agostino Megale presentando la ricerca. “La lotta per l’emersione del lavoro nero – ha aggiunto – è una grande sfida di civiltà che deve unire tutti i soggetti coinvolti. L’obiettivo, difficile ma non impossibile, è di ridurre entro cinque anni il fenomeno del 15 per cento, regolarizzando circa 500 mila lavoratori, a patto di agire insieme a tutte le forze sociali, facendo sì che anche le imprese assumano un ruolo attivo.”

Il dossier, realizzato nell’ambito della campagna della Cgil “Il rosso contro il Nero”, integra i numeri forniti dall’Istat con i dati qualitativi derivati da interviste a lavoratori e questionari somministrati a testimoni privilegiati. La ricerca si divide in tre macro-aree. Vediamo in sintesi i risultati più interessanti.

Rielaborazione dei dati Istat. Più di tre milioni gli ‘irregolari’, uno su due è nel Mezzogiorno
L’Italia si caratterizza per un mercato del lavoro in cui per ogni 100 occupati ci sono quasi 12 prestazioni irregolari. Nessun settore di impiego si salva, anche se i dati più preoccupanti riguardano l’area dei servizi (in particolare commercio, turismo, trasporti e servizi domestici), in cui si concentra il 72 per cento delle prestazioni di lavoro irregolari. “Ma l’Istat – spiega Megale – dovrebbe rivedere al rialzo le sue cifre, perché nel computo sono sicuramente sottostimati i lavoratori immigrati” “Alla somma manca poi il popolo delle false partite iva e l’insieme di altri contratti non standard”, aggiunge Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil. Gli irregolari vivono molto di più nel Mezzogiorno (47 per cento del totale) rispetto al Centro (19 per cento) e al Nord (33 per cento), e il dualismo geografico del fenomeno assume contorni ancor più marcati quando si analizzano i tassi di irregolarità: la quota di occupati irregolari sul totale dei lavoratori raggiunge il 23 per cento nel Mezzogiorno, contro un livello di poco più del 12 per cento nell’area del Centro e del 9 per cento per il Nord. “A peggiorare le cose nel Sud – spiega Giovanna Altieri, direttore dell’Ires – è una crescita del fenomeno, dal 2000 al 2004, del 6 per cento”. Un problema che ad ogni modo riguarda il benessere di tutto il paese, se le stime dell’Istat attribuiscono al valore aggiunto del sommerso una cifra intorno a 235 miliardi di euro, che significa circa il 17 per cento del Pil. Valore che va aumentando, rileva il dossier, nonostante i passi avanti fatti con la regolarizzazione, nel 2002, di 647 mila lavoratori stranieri. Il ‘conto dell’evasione’ è salato: il ministero dell’Economia lamenta un mancato gettito tributario, nel 2004, pari a 105 miliardi. A farne le spese sono soprattutto gli enti previdenziali, che perdono introiti per 40 miliardi, e le casse dell’erario (meno 30 miliardi).

Il sommerso attraverso le parole dei lavoratori: una trappola permanente
I problemi maggiori emersi dalle interviste, effettuate a lavoratori irregolari di quattro aree (terziario, industria, parasubordinati, stranieri), sono per le donne: per loro svolgere un’attività irregolare è condizione limitante in molti momenti significativi quali la maternità e il tempo da dedicare alla famiglia; hanno retribuzioni inferiori a quelle dei loro colleghi maschi e restano più a lungo più relegate in profili a bassa qualificazione. Gli immigrati irregolari, dal canto loro, lamentano le difficoltà nell’ottenere il permesso di soggiorno. Un tratto che accomuna trasversalmente tutti gli intervistati è il mancato accesso a percorsi di formazione professionale, mentre dalle interviste si conferma l’enorme differenza tra Nord e Sud del paese, con maggiori elementi di frustrazione nel Mezzogiorno. Tutti, ad ogni modo, pongono l’accento sul senso di “solitudine” nel vivere la propria condizione rispetto a quello che dovrebbe essere il ruolo delle istituzioni, considerazione strettamente collegata a una diffusa sfiducia nelle politiche delle amministrazioni locali. “Altrettanto diffusa, e forse ancor più preoccupante – aggiunge il curatore della ricerca Clemente Tartaglione – è la durata della condizione irregolare, che spesso supera i dieci anni, creando un vero e proprio ‘secondo mercato’ del lavoro”. Per quel che riguarda il sindacato è emersa una problematica di duplice natura: da un lato una forte difficoltà (giustificata dall’eccessiva frammentazione del panorama delle imprese, nonché dalla diffusione del sistema di appalti e subappalti) nel raggiungere in modo capillare le realtà imprenditoriali irregolari, dall’altro la scarsa consapevolezza, da parte dei lavoratori (soprattutto degli immigrati), della possibilità di rivendicare i propri diritti attraverso l’azione sindacale. E questo anche a causa dell’incertezza normativa, che influenza i comportamenti degli irregolari portandoli a non denunciare forme di utilizzo scorretto del contratto. Resta il fatto che la maggior parte degli intervistati, fatta eccezione per situazioni particolari, dichiara di non aver mai avuto rapporti con il sindacato.

La denuncia del Mezzogiorno: da noi non si fa abbastanza
Il lavoro irregolare è molto diffuso e strutturale, interessa tutti i settori di attività economica e investe, in misura maggiore, i soggetti più deboli nel mercato del lavoro, cioè i disoccupati, i giovani in cerca di prima occupazione e gli immigrati. È quanto emerge da oltre 400 questionari somministrati a un campione rappresentativo della governance di alcune province del Mezzogiorno (amministratori locali e rappresentanti della società civile, sindacalisti, imprenditori, ispettori del lavoro, rappresentanti delle forze dell’ordine). Secondo il 71 per cento degli intervistati il lavoro irregolare è aumentato negli ultimi anni, mentre l’azione di contrasto è ritenuta drammaticamente deficitaria dall’85 per cento del campione. Nella definizione delle priorità per l’azione di contrasto, dicono gli intervistati, si deve rafforzare soprattutto la cultura della legalità (a chiederlo è il 69 per cento). Altri fattori considerati importanti sono maggiori controlli e più repressione, mentre l’elemento a cui si attribuisce minore rilievo è quello degli incentivi allo sviluppo (44 per cento). Ciò che chiede la governance è che tutti gli attori locali, comprese le istituzioni scolastiche, facciano qualcosa in più. Il contrasto deve quindi essere il prodotto di un’azione comune di più soggetti, che devono agire affiancandosi a quelli “ naturalmente” deputati a svolgere funzioni di controllo e repressione. A conferma di ciò, l’indagine evidenzia anche le difficoltà che gli “addetti ai lavori” incontrano nell’esercizio delle loro funzioni. C’è in particolare nell’analisi e, soprattutto, nelle indicazioni dei funzionari degli ispettorati del lavoro, un chiaro segnale del disagio in cui si trovano a operare, che traspare anche nelle valutazioni dei sindacalisti e dei rappresentanti del sistema delle imprese. Non a caso l’alto tasso di disoccupazione, l’elevata soglia di tolleranza sociale delle irregolarità e l’arretratezza delle organizzazioni imprenditoriali sono ai primi tre posti tra le cause del lavoro irregolare individuate dalla governance locale.

Cosa fare ora?
“Bisogna fare della cultura della legalità la bandiera di questa lotta” spiega Megale. “Al via, dunque, i piani locali per l’emersione nei quali diventi centrale la concertazione locale per uno sviluppo di qualità, definendo appositi piani territoriali in cui insieme ai processi di regolarizzazione si attrezzano, ad esempio, i centri di servizi, consorzi di impresa e piani di informazione locale. Le parti sociali, poi, devono avere un ruolo attivo nel procedere al pieno rispetto dei contratti nazionali di lavoro”. “Attuare tutte le norme della finanziaria (indici di congruità, Durc, cabina di regia) e privilegiare le politiche locali” sono le priorità individuate dal segretario confederale della Cisl Giorgio Santini. “Che il 2007 segni l’anno della svolta” è quanto si augura Fammoni. “L’anno scorso è stato quello delle campagne informative – spiega ancora – adesso bisogna agire. Bene la pressione e la repressione, ma da sole non bastano. Noi vogliamo portare al centro il ‘valore del lavoro’, parlarne nelle scuole”. Fammoni rimprovera anche i media, che a suo dire “dovrebbero fare di più, perché non si parla mai dei problemi dei lavoratori, se non quando si tratta di tragedie”. “Portare sui banchi di scuola e nelle università il tema della sicurezza sul lavoro”, infine, è quanto si auspica il ministro del Lavoro Cesare Damiano, la cui battaglia contro la precarietà ha portato già i primi risultati con le regolarizzazioni dei call center e del settore edile. “In pochi mesi qualche risultato lo abbiamo portato a casa. Il governo vuole creare nuove convenienze nel mercato del lavoro – ha concluso – rendendo la flessibilità più costosa del lavoro stabile, senza mai dimenticare la concertazione con le parti sociali”.

(www.rassegna.it, 5 marzo 2007)