Un impero nato per decreto-Craxi

È cominciato tutto quel giorno di vent’anni fa. Mai, nemmeno quando «scese in campo» nel ’94, Silvio Berlusconi si è giocato tutto, anche i denti, come quel giorno di vent’anni fa. Era il 20 ottobre 1984. Il presidente del Consiglio Bettino Craxi rientrò precipitosamente da una missione ufficiale a Londra per riaccendere le tv dell’amico appena «spente» dalla magistratura perchè violavano varie sentenze della Corte costituzionale, trasmettendo su tutto il territorio nazionale con la finta diretta dell’«interconnessione». Quel giorno di vent’anni fa Silvio Berlusconi rischiò, per qualche ora, di perdere per sempre la partita contro la Rai, l’unica azienda televisiva autorizzata a irradiare programmi contemporaneamente in tutt’Italia. Cioè rischiò di rimanere quel che era: un impresario come tanti. Invece, grazie all’amico Bettino e a vari confratelli piduisti sistemati nei posti giusti, il Cavaliere scampò quel pericolo e divenne quello che conosciamo. Per decreto, ovviamente incostituzionale. Il decreto Berlusconi. La prima volta che la legge, da «provvedimento generale ed astratto», si trasformò in rimedio urgentissimo per una sola persona.
Una tv col cappuccio
Il 2 maggio 1979, quando fonda la sua prima televisione, Telemilano, una tv via cavo per gli abitanti di Milano 2, il costruttore Berlusconi è iscritto da un anno alla loggia P2, collabora al Corriere della sera (controllato da Licio Gelli) con sapidi commenti di economia, e da qualche mese è stato decorato Cavaliere del lavoro. Da un paio d’anni è anche socio al 12% del Giornale di Indro Montanelli. Recita il Piano di rinascita democratica, elaborato da Gelli e misteriosi consulenti intorno al 1976 e scoperto solo nel 1983: «a) acquisire alcuni settimanali di battaglia; b) coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata; c) coordinare molte tv via cavo con l’agenzia per la stampa locale; d) dissolvere la Rai-tv in nome della libertà di antenna…».
Nel novembre ’79 Berlusconi ribattezza la tv Canale 5 e strappa alla Rai Mike Bongiorno. Il 7 giugno ’80 la Corte costituzionale concede alle tv commerciali la facoltà di trasmettere via etere, ma solo in ambito regionale, e sollecita il Parlamento a varare una legge di sistema. Il ministro delle Poste Michele Di Giesi (Psdi) promette: «Presto faremo una buona legge». Ma subito Berlusconi lo zittisce: «Non c’è bisogno di alcuna legge, perchè il mercato ha in sè gli anticorpi necessari a provocare una autoregolamentazione del sistema televisivo privato». La legge si arena e Berlusconi, in tre anni, scorrazza pressochè solitario nel Far West delle antenne, facendo incetta di ponti ed emittenti.
Il 17 marzo 1981 esplode lo scandalo P2, col ritrovamento degli elenchi degli affiliati negli uffici di Gelli: c’è pure Berlusconi, insieme a politici, ministri, generali, giornalisti, imprenditori, faccendieri. Arrestati Gelli, Calvi e Carboni. Il Cavaliere, per nulla mortificato dallo scandalo, chiede alla Corte costituzionale di consentire anche alle tv private di trasmettere a livello nazionale. Ma il 22 aprile la Consulta risponde picche: monopolio Rai per le trasmissioni nazionali, private solo su scala locale e regionale, salvo autorizzazione del ministero. Berlusconi se ne infischia e aggira il divieto col sistema dell’ «interconnessione», che lui stesso spiega così: «In gergo si chiama “pizzone”: è il nastro madre che, riprodotto, può essere mandato in onda su tutte le stazioni regionali anche cinque giorni dopo, dando l’impressione agli ascoltatori di un programma trasmesso in diretta su tutto il territorio nazionale». Nel 1982 la Rai lo denuncia alla magistratura per violazione di tre sentenze della Consulta. Lui la accusa di «terrorismo ideologico». Ma viene denunciato anche dall’Anti, l’associazione delle altre emittenti locali. Si muovono vari pretori: Biagio Tresoldi di Palermo dà torto a Canale 5, Francesco Lalla lo condanna a due mesi di arresto con la condizionale per trasmissioni nazionali senza concessione. Lui intanto fa altri acquisti: nel settembre ’82 Italia1 da Rusconi e nel giugno ’83 Sorrisi e Canzoni tv da una consociata dell’Ambrosiano. Achille Occhetto, della direzione del Pci, denuncia inascoltato: «L’operazione che ha portato al costituirsi di un monopolio privato accanto a uno pubblico è quella prefigurata e voluta da Licio Gelli».
Nell’agosto 1983 scende su Arcore la manna dal cielo: l’amico Craxi diventa presidente del Consiglio. Ma Montanelli lo attacca duramente sul Giornale, dandogli del «padrino» e del «guappo di cartone». Craxi, il 27 agosto, protesta al telefono con l’amico Silvio (intercettato dalla Guardia di Finanza, che lo sospetta di traffico di droga, in un’indagine poi archiviata): «Montanelli è una merdolina, l’atteggiamento di ostilità continua, ne tireremo le conseguenze…». Berlusconi tenta di rabbonirlo: «Vedrai, Bettino, ora vado al Giornale, batto i pugni sul tavolo, mi impongo io. E se il signor Montanelli continua… lo mando a cacare, al diavolo, lo mando affanculo, gli taglio i soldi». Poi, più modestamente, chiama il condirettore Biazzi Vergani, uomo di provata fede, e gli raccomanda di trattare bene Craxi: «Ho fatto tanto per aiutarlo per la campagna elettorale a Milano… È quello che ci deve fare la legge sulla televisione… E poi ci ha in giro gli Andreotti, i Forlani, tutta ‘sta gente qui, che è gente di buon senso…». Ma si raccomanda: «Non dire niente a Indro».
Craxi evita accuratamente di rinnovare il Cda Rai, scaduto da tempo e lascia nei posti chiave della tv pubblica vari dirigenti i cui nomi compaiono negli elenchi della P2 (Giampaolo Cresci, Gino Nebiolo, Franco Colombo, Gustavo Selva). Poi nominerà un nuovo presidente, Enrico Manca, che pure risultava nella lista di Castiglion Fibocchi (anche se l’interessato ha smentito).
Nel 1984, raccomandato da Craxi a Mitterrand, monsieur Berlusconì inizia la campagna di Francia con La Cinq e, in agosto, acquista Rete4 da Mondadori. Ormai controlla l’80% dell’emittenza privata. Ma gli resta un ostacolo da rimuovere: la Legge e chi deve farla rispettare, la Magistratura.
Il braccio inutile della legge
Nel pomeriggio del 16 ottobre 1984 i telespettatori del Piemonte, dell’Abruzzo e del Lazio non trovano più le tre reti Fininvest. Oscurate. Alle 20.20, su Canale 5, Italia1 e Rete4 compare una scritta: «Per ordine del pretore è vietata la trasmissione in questa città del programmi di… regolarmente in onda nel resto d’Italia». Cos’è accaduto? I pretori Giuseppe Casalbore di Torino, Eugenio Bettiol di Roma e Nicola Trifuoggi dell’Aquila hanno decretato la disattivazione degli impianti (i «ponti di frequenza») e il sequestro dei «pizzoni» (le cassette preregistrate) che consentono alle tv regionali affiliate al circuito berlusconiano di trasmettere in «interconnessione» su scala nazionale senza permesso ministeriale. Ma – come spiega Casalbore all’Unità – «nulla vieta a queste tv di mandare in onda programmi prodotti localmente, ad esempio un bel dibattito sul pretore che fa i sequestri». Nessun oscuramento, dunque. Ma la Fininvest, per drammatizzare la situazione, decide di auto-oscurarsi, attribuendone la colpa ai giudici. E il 17 ottobre tutti i giornali parlano di «oscuramento» e «serrata dei pretori»: la versione berlusconiana, falsa e bugiarda, diventa verità di fede. Il popolo dei Puffi, di Dallas e di Uccelli di Rovo, debitamente arruolato dalla propaganda Fininvest, si mobilita: tempesta Palazzo Chigi, giornali, preture e Rai con telefonate di fuoco, mentre il Cavaliere minaccia un referendum popolare. Casalbore deve chiedere alla Sip di cambiare numero di telefono, visto che anche casa sua è bersagliata dalle proteste. Inondata di telefonate anche la vedova del giornalista sportivo Renato Casalbore (morto a Superga con il Grande Torino), che ha la colpa di chiamarsi come il giudice.
Quel che accade poi lo racconta Giuseppe Fiori ne “Il Venditore” (Garzanti). Berlusconi revoca l’auto-oscuramento a Roma per mandare in onda uno speciale del “Costanzo Show”, condotto dal confratello piduista Maurizio: due ore di piagnisteo con varie star da riporto. Ecco l’irresistibile cronaca di Sergio Saviane per l’Espresso: «Alle 10 della sera comincia la veglia al catafalco della defunta Rete4, officiatore Costanzo, listato a lutto. È un Costanzo scolorito, smunto, gli occhi segnati dal dolore, la lacrima in agguato… Il momento è carico di attese, e di dentiere. Si invoca una prece. Ci sono registi zoccoloni con lutto all’occhiello, attori e mezzibusti con la cravatta scura, pubblicitari moribondi… Piangono sconsolate le matrone in gramaglie rimaste vedove di Canale5, la Silvana Pampanini in dentiera da mezzasera, la suocera del pubblicitario in coma per la scomparsa di Dallas… Gava, ministro delle telecomunicazioni e delle telespeculazioni napoletane, non contento di aspettare da otto anni questa benedetta legge, dice: “Bisogna ancora studiare il problema, cosa che mi accingo a fare immediatamente”. E poi dicono che i nostri ministri sono dei coglioni. Ma se non fanno altro che accingersi…».
Gli «Speciale black out» si susseguono su tutte le reti Fininvest, che strillano all’oscuramento anche se sono regolarmente accese. Il Corriere della sera affida al costituzionalista Vezio Crisafulli il compito di ricordare, in perfetta solitudine, che Berlusconi ha violato la legge e «i pretori hanno ragione». Ma la politica che conta sta con Berlusconi: il Psi dell’amico Bettino, il Psdi del piduista Pietro Longo, la destra Dc, i radicali di Pannella.
Silvio comanda, Bettino risponde
Il 20 ottobre Berlusconi, allarmato per le fibrillazioni dei pubblicitari, vola a Roma per un’udienza riservata da Craxi, in partenza per una missione diplomatica a Londra. Chiede un decreto urgente, ma il ministro delle Poste Antonio Gava (sì, Gava) si mette di traverso: «Sarebbe un errore agire in termini di conflitto con l’autorità giudiziaria, che interpreta le norme esistenti». Craxi però non sente ragioni. Da Londra convoca un consiglio dei ministri straordinario per la sera stessa. Poi anticipa il rientro a Roma e firma a tempo di record il «decreto Berlusconi», che annulla le ordinanze dei pretori e le sentenze della Consulta, legalizzando l’illegalità. Mai visto nulla di simile neppure per l’alluvione in Polesine e i terremoti nel Belice, nel Friuli e in Irpinia. Provvedimento «eccezionale e temporaneo», spiegano i socialisti, in attesa della legge sulle tv, data per imminente (invece la faranno solo nel 1990: la Mammì). «Craxi è un uomo provvidenziale», flauta riconoscente il Cavaliere. E aggiunge il suo personale concetto di legalità: «Il pubblico non ha sentito la nostra attività come un reato, ma anzi l’ha giudicata un beneficio che gli volevano ingiustamente togliere».
Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Così, il 28 novembre la Camera, grazie ai franchi tiratori di un pezzo della Dc e del Pri, boccia il decreto perchè incostituzionale: 256 voti contro 236. E il 3 dicembre i tre pretori reiterano il sequestro degli impianti. Craxi li investe a male parole. «Non ho mai visto – commenta Casalbore – che a una diffida fatta a un imputato rispondesse un comunicato durissimo della presidenza del Consiglio». Non si usava, allora. Comunque, il 6 dicembre, Craxi impone un secondo decreto, il Berlusconi bis, ponendo la fiducia e minacciando la crisi di governo e le elezioni anticipate se non verrà convertito. E infatti, il 31 gennaio 1985, viene approvato a maggioranza. Berlusconi è salvo, insieme a ciò che ha di più caro: la pubblicità. Ai due decreti incostituzionali seguiranno tre leggi televisive, sfornate da tre diverse maggioranze: la Mammì del ’90 (Pentapartito), la Maccanico del ’98 (Ulivo), la Gasparri del 2004 (Cdl). Tutte su misura di Berlusconi. Tutte incostituzionali. Quel giorno di 20 anni fa, con largo anticipo sul ’94, il Cavaliere scese davvero in campo, assunse il controllo del Parlamento e non lo mollò più. Dieci anni prima di candidarsi.