Un filo di pace

Con le elezioni alle porte, il Pil che ristagna, gli immigrati che spingono, chi ha voglia di occuparsi di politica estera? E se gli italiani, come ha detto Prodi e come promette la Costituzione americana ai suoi cittadini, hanno il diritto alla felicità, perché rattristarli con lunghe concioni sulla guerra? Meglio dimenticarla, e con essa i nostri soldati al fronte. Così, quando un giornalista al famoso faccia a faccia ha tirato fuori il problema, tanto Berlusconi quanto Prodi hanno preferito parlar d’altro. Salvo dire, il primo, che non vede realistica una guerra all’Iran; il secondo, che quando l’Unione sarà al governo non parteciperà ad alcuna guerra che non sia controfirmata dall’Onu. Sabato 18, in tutto il mondo, il movimento globale nato in questi anni manifesterà contro la guerra e le politiche neoliberiste che nella guerra trovano un fondamento. Anche da noi, anche a Roma torneranno le bandiere arcobaleno che rappresentano la volontà della maggioranza della popolazione. Non aiuta la crescita democratica il silenzio di Prodi sulla politica estera, e dispera il fatto che la guerra in corso in Iraq sia già stata digerita dalla politica, che semmai si prepara a quelle future: naturalmente con l’avallo dell’Onu che con la bacchetta magica trasforma una guerra cattiva in una guerra buona, per la quale evidentemente vale la pena morire e uccidere.

Mai più Kosovo, aveva detto qualche dirigente della sinistra che aveva incontrato sulla via di Damasco o dell’opposizione al governo Berlusconi le ragioni dei pacifisti, o forse aveva avuto modo di vedere le conseguenze di quella carneficina «umanitaria». Ma i tempi delle autocritiche e dei cortei, per molti, sono lontani mentre le elezioni incalzano. Meglio non compromettersi per il futuro, meglio evitare di essere accusati dalla destra per l’azione di qualche cretino.

Gli italiani vorrebbero sicuramente essere felici, ma non sono cretini. Sanno che la loro felicità dipende anche dalle scelte di politica estera del futuro governo, e pretendono garanzie di pace. Navighiamo nel martoriato Mediterraneo dove potremmo svolgere un ruolo positivo, di comunicazione e mediazione tra culture e popoli con cui, volenti o nolenti, siamo costretti a confrontarci. In passato, la politica estera italiana che non era certo decisa dalla sinistra si è posta il problema, con un margine di dignità e autonomia nazionale rispetto al prepotente alleato d’oltre Atlantico. Oggi navighiamo contromano, sinistra o non sinistra.

Chi sabato tornerà in piazza tenterà di ricostruire il filo rosso tessuto nel 2002, spezzato dalla guerra nel 2003, riannodato con la manifestazione per Giuliana Sgrena e poi di nuovo allentato dalla distrazione non del comune sentire, ma della politica «amica». Dovremo essere in tanti, anche se non abbiamo al fianco le corazzate pacifiche capaci di traghettare centinaia di migliaia di persone verso una meta comune. In tanti, che il 9 e il 10 aprile voteranno, e che magari vorrebbero votare per l’Unione. Chissà quanti candidati incontreranno nelle strade di Roma.