Un feticcio a buon mercato

Non occorre essere maestri di dialettica per comprendere che ogni forma di libertà possiede due distinte determinazioni. Per un verso, infatti, essere liberi significa non avere costrizioni, godere della possibilità di dare sfogo ai propri desideri e di svolgere come si crede e si vuole la propria personalità. Per un altro verso, significa doversi dare degli obiettivi, acquisire le forze e le competenze necessarie per raggiungerli e, soprattutto, essere sprovvisti di protezioni dall’esterno che possano garantirci per il caso di insuccesso. Erich Fromm ha espresso magistralmente questa ambivalenza in uno scritto del 1941, non a caso intitolato Fuga dalla libertà: i problemi cui può dar vita l’acquisizione di spazi maggiori di libertà sono infatti così complicati che si può essere tentati, talvolta, di fuggirne. In altre parole, quando si trova a disporre di una libertà che sopravanza le capacità che fino a quel momento ha elaborato, l’individuo può precipitare in uno stato d’impotenza distruttiva, per uscire dal quale può anche essere disposto a sacrificare gradi rilevanti della propria autonomia e sottomettersi a «qualcuno» che riconosca capace di indicargli la via per quella prassi produttiva che egli non riesce a discernere.

Benché l’ipotesi di Fromm trovi dei robusti correlati empirici sul piano ontogenetico nel comportamento dei bambini (provate a lasciare «liberi» dei lattanti: moriranno) e sul piano filogenetico in certi comportamenti delle masse in epoche di crisi e grandi trasformazioni (cos’altro furono il fascismo e il «comunismo staliniano» se non una fuga dalla libertà conquistata nell’epoca dello sviluppo capitalistico ma ancora incapace di disporre a livello diffuso delle competenze necessarie a risolvere i problemi riproduttivi emersi su quella base?), essa è spesso trascurata nella discussione intorno al tema della libertà. Si può dubitare, ad esempio, che l’abbia oggi presente chi teorizza di individui che sarebbero liberi «per natura» e solo per un perverso accidente della storia sarebbero rimasti assoggettati a rapporti di produzione segnati da ineguaglianza e sfruttamento. Ma si può dubitare che l’avessero compresa fino in fondo anche molti di coloro che diedero vita a quella grande rivoluzione mondiale che fu il Sessantotto. Non è certo questo il luogo per argomentare un giudizio (o meglio, un dubbio) del genere, ma un’indiretta conferma della sua plausibilità viene dal dibattito in corso sui nodi attuali della politica economica.

Se una cosa, infatti, è emersa con chiarezza a seguito dei recenti rovesci del «Patto di stabilità» è che i principali difensori dell’ortodossia finanziaria nel nostro paese si collocano nelle file dell’Ulivo. Già all’indomani della notte dei lunghi coltelli di Bruxelles, un editoriale de l’Unità titolava «È cominciata la frana», mentre perfino la vignetta di Staino – in cui Bobo spiega alla figlia l’accaduto evocando «una specie di lodo Schifanì o Skifàn a seconda se lo leggi in francese o in tedesco» – lasciava intendere che la mancata comminatoria delle sanzioni a Francia e Germania per aver sforato il tetto del rapporto deficit/Pil fosse qualcosa di moralmente disdicevole. Più di recente, è stato Vincenzo Visco – in una lettera apparsa sul sito de lavoce.info («Otto domande per il dopo-Patto») – a ribadire il concetto: data la relazione diretta fra livello dei tassi d’interesse di mercato ed entità dei disavanzi pubblici, se la convergenza fiscale dei paesi aderenti all’Unione europea si arresta e ognuno si dà alla finanza allegra, la politica monetaria della Bce diventerà più restrittiva; per di più, non è detto che allo stimolo fiscale faccia seguito la crescita, visto che a parità (o quasi) di deficit l’economia americana decolla e quella europea ristagna. Dunque, lasciamo perdere riforme come l’introduzione della golden rule (la regola aurea della finanza pubblica: ci si indebiti per investire ma si tengano a freno le spese correnti): non solo non è certo che maggiori spese per investimenti inducano una crescita strutturale del Pil, ma potrebbe perfino diffondersi la perniciosa idea che non si debbano introdurre tetti espliciti o impliciti all’espansione del bilancio e giungersi così ad azzerare i surplus primari prima e ad aumentare le spese correnti poi.

Chiunque sappia un po’ d’economia sa che affermazioni del genere sono teoricamente discutibili ed empiricamente dubbie, ma non è questo il punto. Il fatto su cui richiamare l’attenzione è che codesta posizione è propagandata con forza da uno schieramento in cui sono confluiti esponenti (e voti) appartenenti a una generazione che trent’anni fa aveva rivendicato la libertà degli esseri umani di fare la propria storia fuori dalle pastoie del feticismo del denaro. Come è potuto succedere? Perché mai i progressisti hanno impugnato la bandiera dell’ortodossia finanziaria, storicamente appartenuta alla destra? Perché i sostenitori della finanza sana si trovano oggi più spesso a sinistra degli schieramenti politici, mentre fior di conservatori in Europa e oltreoceano praticano con disinvoltura il deficit spending?

Il fatto che il fenomeno sia generalizzato in tutto l’Occidente – basti ricordare che negli Usa l’avanzo del bilancio pubblico si raggiunse durante la presidenza Clinton, mentre con Bush jr. siamo di nuovo ai disavanzi gemelli – esclude che la posizione dei progressisti nostrani sia riducibile ad un gioco delle parti tra governo e opposizione. Non è, in altri termini, perché a sforare è il governo Berlusconi che i progressisti s’indignano: è per lo sforamento in sé e per sé – non dimentichiamo che il Patto di stabilità fu sottoscritto nel 1997, in piena epoca ulivista, e non fu certo presentato come una forca caudina. Come è possibile, dunque, che coloro che da giovani dissacravano il feticismo del denaro siano tornati da adulti a legarsi mani e piedi a quello stesso feticismo, sposando la più retriva delle vie alla stabilità dei prezzi – quella che non vede all’uopo altro strumento che il sacrificio di un welfare tutt’altro che generoso, come pure è quello italiano?

In un celebre scritto intitolato al Problema economico del masochismo (1924), Freud – com’è noto – avanza l’ipotesi che l’imperativo categorico kantiano sia il diretto discendente del complesso edipico: benché il processo di crescita abbia consentito all’individuo di superare la fase edipica, in cui i genitori sono gl’impossibili oggetti degli impulsi libidici dell’Es, il Super-io (che sorge proprio in dipendenza dell’introiezione dei genitori) «ha conservato alcune caratteristiche essenziali delle persone introiettate: ne ha conservato il potere, la severità, la tendenza a sorvegliare e punire». In tal modo, quegli stessi personaggi, che continuano ad operare come coscienza morale dopo aver cessato di essere oggetti di impulsi libidici, diventano i rappresentanti nel foro interiore dell’adulto non solo del potere del passato e della tradizione ma – si potrebbe legittimamente aggiungere – anche della protezione e della sicurezza che da quel potere egli, da bambino, ricavava. E ciò può dirsi non solo per le immagini dei genitori, ma anche per quelle, che ad essi succedono, degli educatori, delle autorità e degli «eroi» pubblicamente riconosciuti, fino ad arrivare all’ultima figura di questa serie, che è l’«oscuro potere del destino, che solo pochissimi di noi sono capaci di intendere in modo impersonale»: per tutte vale l’ambivalenza di potere e sicurezza, di dominio e protezione, di soggiogamento e beneficio, che connota il rapporto del bambino con i genitori.

Fin qui, ovviamente, non c’è nulla di male. Il problema sorge quando la moralità trabocca nel «masochismo morale», ossia quando un individuo si assoggetta integralmente ad una coscienza morale che lo inibisce in modo severo, senza peraltro essere consapevole di questa sua «ipermoralità». In questi casi, spiega Freud, il processo di superamento del complesso edipico si è come interrotto, «la moralità torna ad essere sessualizzata, il complesso edipico è riattivato, viene aperta la strada per una regressione dalla moralità al complesso edipico». Freud non spiega quando ciò avvenga, ma si può inferirlo ponendo mente al nesso dialettico fra autorità, libertà e protezione: chi ambisca a liberarsi dall’autorità senza aver al tempo stesso elaborato le capacità necessarie per affrontare i propri problemi riproduttivi e sperimenti per ciò un fallimento, tanto più facilmente incorrerà nel masochismo morale e tanto più facilmente si assoggetterà ai castighi inflittigli da una qualche «autorità parentale», vedendoli come momento catartico essenziale per tornare a godere della sua severa benevolenza.

Wittgenstein diceva che la psicoanalisi era una forma di mitologia e che Freud, per quanto ambisse ad essere scientifico, «in realtà offre una congettura, qualcosa che precede perfino la formulazione di un’ipotesi». Eppure sostenne sempre che l’inventore della psicoanalisi fosse uno dei pochi autori che valesse la pena di leggere, probabilmente perché – come ha suggerito qualche anno fa Jacques Bouveresse – il fascino dell’interpretazione psicoanalitica dipende dal suo potere di conferire una dimensione inquietante a comportamenti a prima vista del tutto innocui.

Non so se la congettura qui implicitamente evocata sia plausibile o meno. Non so, per dirla chiaramente, se sia plausibile sostenere che l’ossequio indiscusso all’ortodossia finanziaria è il castigo che gli ex sessantottini si infliggono per essersi ribellati all’«autorità parentale» del «Dio Mercato» senza aver prima elaborato le capacità necessarie per spingersi consapevolmente al di là di esso, né se sia ragionevole supporre che la moderazione salariale e i tagli alle pensioni e alla sanità servono ad ingraziarsene nuovamente la «benevolenza»; mi limito solo ad osservare, parafrasando ancora Freud, che la fiducia che certi progressisti ripongono nella possibilità che un mercato perfettamente competitivo conduca all’ottimo paretiano al di fuori dei modelli di Arrow e Debreu suscita il sospetto che essi considerino questa potenza ultima e remota proprio come dei genitori onnipotenti e adirati per un’improvvida e oltraggiosa ribellione.

Certo, una congettura del genere è molto più inquietante dell’ipotesi di un qualche «tradimento dei chierici», perché chiama in causa responsabilità ben più diffuse di quelle ascrivibili ai gruppi dirigenti. Sarebbe il caso che i molti «antagonisti» d’oggidì l’indagassero un po’: potrebbe servire a fare i conti col nostro attuale «masochismo economico» e prevenire quello prossimo venturo.