Anche ieri l’ininterrotta quanto nascosta odissea dei migranti ha avuto la sua strage, l’ennesima di una lunga catena di misfatti consumati a mare. Solo una settimana fa alcuni sopravvissuti erano giunti a Lampedusa soccorsi dai bagnanti stupiti che le loro vacanze avessero quella sorpresa. Dieci sono i morti ma parlano di quaranta dispersi.
Ha fatto bene il ministro degli interni Giuliano Amato a dichiarare che non si tratta solo di una tragedia ma di un crimine, riferendosi ai traghettatori di speranze e carne umana che con carrette stracolme portano dall’altra parte del Mediterraneo i disperati fin sulle nostre coste. Ma il crimine non è solo quello di chi approfitta e lucra sulla miseria e la voglia di fuga da condizioni che a malapena riusciamo ormai a raccontare, come la fame e la guerra – e molti degli uomini e delle donne sopravvissuti ieri a stento al naufragio venivano proprio da Etiopia e Somalia, due immani disastri africani. Perché se quello è un crimine, come dovremmo chiamare l’attitudine, l’impegno, le leggi, del continente europeo a impedire l’arrivo in Occidente di chi fugge da una condizione che potremmo tranquillamente definire di non-vita e da un continente ricco, l’Africa, del quale noi siamo tra i principali depredatori? E siamo solo di fronte ai naufragi conosciuti, perché ben più drammatica è la stima di quelli che la cronaca non riesce nemmeno a testimoniare e che fanno ormai del Mediterraneo un grande cimitero marino – aspettando che almeno i poeti se ne occupino.
Solo nove anni fa un governo di centrosinistra guidato anche allora da Prodi si trovò a gestire la crisi dei migranti albanesi in fuga dalla guerra civile interna. Lo fece nel modo peggiore, tra la tragedia e il crimine. Decise un blocco navale che alla fine provocò la morte di più di cento tra uomini, donne, tanti bambini e anziani. Qualcuno ricorda ancora la Kater I Rades e quell’eterno scaricabarile di responsabilità, quelle vittime verso le quali non abbiamo alla fine nemmeno adempiuto fino in fondo a obblighi di risarcimento? Forse sì, se ora di fronte ai naufragi partono i soccorsi e se una parte del governo mostra, con le nuove legalizzazioni, finalmente un’apertura. Ma forse no, se si continua a pensare all’immigrazione secondo la logica poliziesca e repressiva che spesso fa dei rigidi abbordaggi e delle pericolose manovre a mare da parte dei mezzi militari l’occasione del disastro – e dio non voglia che anche stavolta all’origine del naufragio ci sia stato proprio questo.
Ora l’intervento militar-poliziesco è diventato regola con l’Unione europea che punta a istituzionalizzare i muri, veri come quello di Ceuta e Melilla verso la Spagna, o legali per fermare l’«invasione». La peggiore tra queste nuove barriere è il sistema consolidato di fermare sull’altra sponda i migranti attribuendo ai paesi del Nord Africa il ruolo di gestori di campi di concentramento. È quello che il governo Berlusconi ha proposto alla Libia, frontiera naturale della grande miseria africana, paese da sempre attraversato quasi naturalmente da flussi di migranti che costituiscono buona parte della sua popolazione e verso i quali è impossibile l’ipotesi «concentrazionaria», pena la rimessa in discussione della stabilità libica e della natura stessa del paese.
Purtroppo quello dei campi di concentramento è lo stesso «sistema» che il nuovo governo si avvia, in cambio di chissà quale profferte, a riproporre a Tripoli come agli altri paesi del Maghreb.
È un crimine bipartisan, ma non per questo è meno grande.