«Un compromesso, ma il principio l’abbiamo difeso»

Forse ci farà un noir, tanto intricata è stata la nascita del Reach. Guido Sacconi, europarlamentare dei Ds, ha dedicato gli ultimi due anni a mettere a punto il nuovo regolamento sulle sostanze chimiche, incalzato dalle multinazionali del settore. Adesso attende il voto di giovedì al parlamento, dopo un ultimo compromesso con i popolari e l’industria, un compromesso che però fa già discutere.

A cosa serve la direttiva Reach e perché ha sollevato tante tensioni?

Perché ribalta l’onere della prova. Prima spettava all’autorità pubblica provare che una sostanza era pericolosa, ed era un sistema che non funzionava. Adesso Reach rovescia questa logica: l’onere della prova spetterà alle imprese, saranno loro a dover fornire le informazioni per poi mettere in moto un processo che porta all’identificazione delle sostanze più pericolose. Queste verranno sottoposte ad un regime speciale di autorizzazione, restrizione o, eventualmente, bando. Il cambiamento non piace all’industria chimica, in particolare alla tedesca, che ha cercato in tutti i modi di bloccarlo.

Eppure Wwf, verdi e comunisti sostengono che l’ultimo compromesso con il partito popolare è un passo indietro, proprio verso l’industria.

Posso dire che è stato salvaguardato il principio essenziale dell’onere della prova, anche se è stato modulato il numero di informazioni che devono fornire le imprese a seconda delle quantità e della pericolosità delle sostanze. Non si è ridotta la portata del sistema. Resta una bella macchina che avrà sufficiente benzina per andare avanti bene.

Il compromesso però c’è stato.

Gli aspetti fondamentali del compromesso sono tre. In primo luogo sulla regola Osor, in sostanza una registrazione, che ha sollevato la resistenza feroce dell’industria tedesca. Resistenza che adesso sembra venuta meno con delle clausole di opt out (clausole di esenzione, ndr) che però devono ancora essere specificate in maniera precisa. Altro punto è il numero di informazioni richieste per la registrazione delle sostanze prodotte in piccoli tonnellaggi, da 1 a 10, per cui è stata immessa una differente valutazione a seconda della pericolosità: le più preoccupanti avranno una registrazione rafforzata, ancora più difficile, poi è prevista una fascia intermedia con i test tossicologici ed una terza parte in cui basteranno le informazioni chimico-fisiche. La fascia da 10 a 100 tonnellate è stata la più difficile perché siamo arrivati al confine della rottura. La possibilità di omettere alcune informazioni c’è, ma è limitata al caso di alcuni test – quelli genetici sono in effetti costosissimi – chenon vengono considerati obbligatori se si può dare un’adeguata dimostrazione del livello di rischio e di esposizione al rischio. Mi rendo conto che «adeguata dimostrazione» può essere considerata una formula cavallo di Troia per sabotare il sistema, ma sono fiducioso che non sia così perché abbiamo fissato dei vincoli precisi. Infine sulle sostanze bioaccomulative (quelle che si accumulano nel notro organismo ma di cui non conosciamo ancora gli effetti, ndr) in effetti abbiamo un po’ peggiorato quanto previsto dalla commissione ambiente, inserendo uno scaglionamento della loro entrata nel sistema a seconda del tonnellaggio. Sono dei compromessi che però non intaccano l’essenza del sistema: l’onere della prova e il principio della sostituzione.

Come si è mossa l’industria?

L’industria chimica in generale e quella tedesca in particolare hanno giocato su molti tavoli, hanno cambiato tattica ma sempre con l’obiettivo di impedire al parlamento di rovesciare l’onere della prova. Con il voto in commissione ambiente l’industria ha capito che il discorso era chiuso per cui ha provato a giocare su due fronti. Da un lato ha negoziato per limitare i danni e dall’altro ha provato a far saltare il banco con un rinvio politico per poi riaprire completamente il discorso. Siamo in questa situazione, rischiamo un rinvio. Ma sono ottimista perché abbiamo tenuto aperto il quadro di alleanze a sinistra, facendo al tempo stesso un compromesso con i popolari. Le critiche comprensibili che vengono dagli ambientalisti saranno ascoltate ma devono capire che la cosa importante è far partire il sistema, strada facendo sarà possibile migliorarlo. Una cosa fondamentale è che senza Reach non ci sarà l’Agenzia europea dei prodotti chimici.

Non c’è però il rischio che l’Agenzia diventi il covo dell’industria come quella alimentare lo è dei fans del biotech?

Abbiamo fatto un lavoro sulla trasparenza e la formazione dei comitati, per cui non credo che ci sia questo rischio.

Ma la Commissione ha giocato sporco sulla Reach…

Sì, è una cosa piuttosto seria, c’è stato una specie di rovesciamento dei ruoli, come succede a certe feste. È la Commissione che ha fatto la proposta e normalmente la deve difendere, invece questa volta è successo il contrario, ha voluta cambiarla in senso peggiorativo sfiorando l’illegittimità: se ritiene che la proposta è sbagliata la ritira ma non può modificarla. Le sue manovre sono segnali politici che hanno incoraggiato l’industria.

Sono girate parecchi leggende sulla Reach, tra cui che porterà a due milioni di licenziamenti.

Ci si dimentica di dire che entrerà a regime nel 2018. Non sarà lei, eventualmente, a dare una botta al settore chimico. Dico che tutti, dagli stati, alle imprese, dalle università alle regioni, farebbero bene a fare un grande lavoro di preparazione. Creiamo laboratori consortili università-imprese, lavoro qualificato, politiche industriali di sostegno all’innovazione. Anche il centrosinistra dovrebbe porre già fin d’ora questo tema nella sua campagna elettorale.

Perché gli Usa sono così interessati alla Reach?

Il terrore dell’amministrazione e delle imprese nasce dal fatto che non solo le ong ma anche il mondo scientifico statunitense sta seguendo Reach con molto interesse, in vista di una sua possibile utilizzazione anche in America.