Un centrodestra ostile e punitivo con i ceti ai margini della società, generoso con i vertici

Con la nuova disciplina sull’uso delle sostanze stupefacenti si torna a incriminare penalmente chiunque detenga, per qualsiasi fine, qualsiasi sostanza, in quantità maggiore rispetto al limite fissato, in via astratta e generale, dal ministro della salute. E stato quindi superato il discrimine tra illecito penale e illecito amministrativo, fondato sulla finalità della detenzione (uso personale o spaccio).
Questo ritorno al passato ha cancellato una politica voluta congiuntamente dalla collettività e dalle istituzioni nell’ultimo decennio. Una piccola ricostruzione di questa politica mette in ancor maggiore luce il carattere ciecamente repressivo e antistorico di questa rinata cultura proibizionista Conformemente all’art. 3 comma 4 lettera c) della Convenzione di Vienna del 20.12.1988 (ratificata con la legge 5.11. 1990 n. 328), nel nostro ordinamento l’uso personale era stato sottratto alla sanzione penale. Questo traguardo era stato raggiunto per volontà popolare, che, con il referendum abrogativo del 18 aprile 1993, aveva creato il presupposto per l’eliminazione (formalmente realizzata con il DPR n.171/93) di una linea di demarcazione rigidamente obbligatoria per tutti, costituita dalla «dose minima giornaliera» fissata dal ministro della sanità. Superata questa soglia, scattava comunque la sanzione penale.

Con l’abrogazione di questo rigido criterio esclusivamente quantitativo, la detenzione pura e semplice di una sostanza stupefacente, anche di quantitativi rilevanti, non costituiva di per sé reato, una volta che tale quantità risultasse proporzionata al bisogno personale del possessore per un ristretto arco di tempo.

L’abrogazione del parametro tabellare della dose media giornaliera, per effetto della normativa postreferendaria, imponeva al giudice di accertare, caso per caso, la destinazione reale della sostanza.

Questa sia pur limitata liberalizzazione dell’uso individuale di stupefacenti era stata poi estesa all’uso di gruppo, grazie a una giurisprudenza – iniziata con una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione- che ha escluso il reato per chi avesse acquistato un quantitativo per conto e nell’interesse di altri consumatori.

Sia pure con alti e bassi, con progressi e regressi, si era creata una interessante simbiosi culturale tra collettività e magistratura nella direzione e nella prospettiva della tolleranza e della accettazione di un fenomeno di massa, al di fuori di un proibizionismo cieco e socialmente dannoso.

Si era creata, in questo campo, una giurisprudenza che avrebbe dovuto incontrare il pieno consenso del ministro della giustizia, che spesso ha vagheggiato – in occasione di decisioni “garantiste” da lui non condivise – un armonioso collegamento tra la magistratura e il comune sentire del popolo. La abrogazione, ottenuta proprio dal suo governo, di questa giurisprudenza democratica ha confermato la convinzione che questa invocazione di una giustizia come-la-società-l’attende altro non è che un espediente per imporre la proprie idee, attribuendole a un improbabile comune sentire.

In un contesto sociale e culturale pienamente sensibile all’esigenza di ridurre l’intervento punitivo a un livello di extrema ratio, nella prospettiva di una più ampia liberalizzazione, è pesantemente intervenuta una controriforma, che ha portato a un indiscriminato e generalizzato aumento di sanzioni penali e amministrative (trascurando finalità e oggetto della detenzione), in pieno contrasto con gli stessi principi fissati dagli articoli 3 e 27 della nostra Costituzione. E’ noto che il legislatore deve curare a che a situazioni uguali corrisponda un trattamento uguale; a situazioni diverse corrisponda un trattamento differenziato. La Corte Costituzionale (giudice delle leggi) ha stabilito che l’uguaglianza significa anche proporzione della pena rispetto al fatto e alle “personali” responsabilità del cittadino.

Dal principio di uguaglianza discende quindi quello della ragionevolezza-proporzionalità che, a sua volta non può prescindere dagli scopi educativi che la Costituzione assegna alla pena. Va negata quindi le legittimità delle norme «che producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) e alla società sproporzionatamente maggiori ai vantaggi ottenuti (o da ottenere) con la tutela dei beni e valori offesi». Di questi principi non si è curato il legislatore di centrodestra, che ancora una volta ha realizzato una produzione normativa, caratterizzata da una inusitata ostilità verso settori della nostra società.

Alle norme contro gli extracomunitari sono seguite quelle contro i recidivi, quelle contro gli intrusi nelle private abitazioni e, infine, quelle contro gli assuntori di sostanze stupefacenti.

Questa legislazione passerà alla storia per lo stridente contrasto tra norme enormemente favorevoli ai ceti posti ai vertici sociali e norme enormemente punitive per i ceti posti ai margini della società. Non ci resta che attendere un cambiamento radicale di questa situazione.

* direttore di critica del diritto