Un anno di Evo Bolivia al bivio

A un anno dalla trionfale elezione del 18 dicembre 2005 – quando fu catapultato alla presidenza con il 54% dei voti – la gestione di Evo Morales mostra più luci che ombre. Questo è quanto risulta da un sondaggio dell’istituto indipendente Apoyo, Opinion y Mercado, diffusa il 19 dicembre scorso dal quotidiano La Razon, in cui il 62% dei boliviani approva l’operato del presidente indigeno.
Su questi alti indici d’appoggio incidono le cifre positive della macro-economia boliciana che, per la prima volta in decenni, presenta un superavit fiscale, e misure-simbolo come la nazionalizzazione degli idrocarburi, che ha cominciato a far sentire i suoi effetti sul bilancio dei più poveri grazie al bonus «Juancito Pinto» – 25 dollari l’anno – contro la diserzione scolastica. La condizione dei settori campesinos, poi, è migliorata grazie alla presenza di 2000 medici cubani, alla dotazione di trattori venezuelani, a piani di alfabetizzazione e a un rapporto «faccia-a-faccia» con Evo che quasi ogni giorno viaggia fino alle comunità più lontane dal palazzo Quemado, sede della presidenza a La Paz.
«Abbiamo trovato un paese frammentato, economicamente fallito, ma ora questo paese non chiede più l’elemosina. In un ventennio di neo-liberismo ogni anno si chiudeva con deficit fiscale. Ora, per la prima volta, avremo un superavit del 6% grazie alla nazionalizzazione del gas e del petrolio. Abbiamo dato lezioni di economia ai neo-liberisti», ha detto il vice-presidente Alvaro Garcia Linera durante la celebrazione del trionfo elettorale dell’anno scorso, davanti a una folla riunita nella plaza Murillo di La Paz.
Però quello stesso sondaggio mostra anche la profonda divisione della Bolivia. Mentre tocca il 79% di approvazione a El Alto – la città di 900 mila abitanti, di cui l’82% indigeni, nell’altipiano sopra la capitale – e il 62% a La Paz, l’indice d’appoggio al presidente socialista cade bruscamente al 35% a Santa Cruz, roccaforte dell’attuale offensiva autonomista.
Questo risultati non sono casuali. La Bolivia si trova immersa in una forte polarizzazione regionale in cui l’occidente andino e indigeno sostiene incondizionatamente le riforme nazionaliste di Evo Morales mentre l’oriente amazzonico e bianco è dominato dall’egemonia conservatrice, come ha mostrato il «cabildo popular» del 15 dicembre che ha riunito mezzo milione di persone sotto la statua del Cristo redentore di Santa Cruz de la Sierra. Quell’assemblea popolare ha respinto la nuova costituzione – su cui sta lavorando la Costituente a Sucre – a meno che non riconosca la piena autonomia dei 4 dipartimenti della cosiddetta «mezzaluna» orientale – Santa Cruz, Tarija, Beni e Pando – in appoggio al referendum del 2 luglio scorso, che non è ancora indipendenza ma maggiori livelli di decentralizzazione politica, amministrativa ed economica (compresa la gestione in proprio delle ricchissime risorse).
Tarija possiede le maggiori riserve del gas boliviano – le seconde più importanti dell’America del sud dopo il Venezuela – e Santa Cruz è il centro dell’agro-business del paese. Insieme agli altri due dipartimenti, che hanno un’incidenza economica minore, la «mezzaluna» produce il 43% del Pil boliviano e riceve la metà degli investimenti stranieri che arrivano in Bolivia. Lì si trovano anche i latifondi presi di mira dalla recente Ley de Tierras che ha provocato una virulenta reazione dell’opposizione conservatrice secondo cui il governo fa tabula rasa della «certezza giuridica» e dei diritti di proprietà.
Da venerdì 15 dicembre, quando si è riunito il cabildo autonomista ci sono stati violenti scontri fra sostenitori del governo e dell’opposizione nelle regioni rurali di Santa Cruz: attacchi ai bus, incendi di mercati e di sedi del Mas. il partito di governo, con decine di feriti. Negli ultimi giorni la situazione è sembrata calmarsi con l’arrivo di nuovi contingenti della polizia militare e dell’esercito e con la firma di un accordo di pace.
Un problema aggiuntivo per il governo è l’impantanamento dell’Assemblea costituente, che dopo più di quattro mesi di lavori non riesce a trovare un accordo sulle maggioranze necesssarie all’approvazione della nuova costituzione. Mentre il partito di governo propone una formula mista basata sulla maggioranza assoluta (che il Mas ha alla Camera), l’opposizione di destra reclama l’approvazione con i due terzi dei voti (esigendo di fatto un potere di blocco da parte delle minoranze). In caso contrario, dice, l’opposizione sarebbe ridotta al rango di convitato di pietra dal momento che il Movimiento al socialismo conta con più della metà dei costituenti.
A Santa Cruz – una regione di estese pianure, lontana dalle cartoline tipiche dell’altipiano andino -, molti diffidano dell’indigenismo di Evo Morales sommato, secondo loro, a una forte ingerenza del venezuelano Hugo Chavez. E questa diffidenza si converte in una dichiarazione di guerra sulla bocca di gruppi radicali come la Union Juvenil Cruceñista – una sorta di forza d’urto del Comité Civico che guida la lotta autonomista. «Evo Morales sta portando la Bolivia a una guerra razziale, vuole impiantare un governo hitleriano, noi non abbiamo colpa per i 500 anni di sottomissiomne degli indigeni. Qui governa Chavez», dice David Ceja, uno dei leader dell’organizzazione. E sono in molti a credere che Morales cercherà di perpetuarsi al potere rifacendosi all’esempio chavista.
Martedì scorso il presidente boliviano ha flessibilizzato la sua posizione convocando i leader regionali per firmare un «patto per le autonomie» e aprendo la strada per rendere meno intransigente la posizione del Mas alla Costituente.
Il governo è diviso fra colombe e falchi quando si tratta di affrontare il nodo della «oligarchia cruceña» tuttavia pare che il pragmatismo di Evo Morales faccia pendere la bilancia dalla parte di quelli che cercano una via d’uscita negoziata. Con i dati degli ultimi sondaggi sotto gli occhi, il presidente indigeno sembra essersi convinto che l’unico modo di consolidare e portare avanti il suo progetto politico è quello di recuperare alla sua causa il recalcitrante oriente boliviano e che l’obiettivo potrà essere raggiunto solo inalberando lui stesso la bandiera dell’autonomismo. A condizione che «questo non implichi il controlo locale delle risorse strategiche come le terre e gli idrocarburi».