Un altro mondo possibile

Luigi Cavallaro ha posto con chiarezza una questione importante: quale altra regolazione universale e orizzontale è possibile fuori del rapporto di mercato, dello scambio fra domanda e offerta in cui “incontrano soggetti astratti ma ‘autoregolati’ intorno a una misura di equivalenza?”. Una legge che ‘procede dal lato negativo’ – disuguaglianza, miseria, sfruttamento – ma una legge meno ingiusta (meno strutturata ‘a dominante’) non fa necessariamente ricadere in una normazione consapevole quanto pianificata e centralizzata in una specie di super stato?
Commercio equo e altro volontariato etico sono condannati alla loro dimensione ravvicinata e particolare: funzionano fra chi si conosce e si ama e non sono universalizzabili. Cavallaro non dice, mi sembra, che sia ancora valido il marxismo deterministico del ‘così si forma la classe universale antagonista che rovescerà lo stato di cose esistente eccetera’, ma chiede almeno chiarezza su qual è l’orizzonte progettuale del nuovo movimento. Una bella domanda. Da accettare. Non so rispondere, ma vorrei svolgere una riflessione preliminare nel senso della direzione della ricerca da condurre.
La critica è alla debolezza teorica, al localismo, di quel conoscersi e amarsi quasi come condizione delle nuove relazioni economiche: senza logiche di profitto, senza soggetti anonimi atomizzati astratti, e implicati in una relazione disuguale che determina un rapporto di potere (anche se non di potere ‘politico’).
Se si cerca una sorta di equivalente universale alternativo al mercato capitalistico, a me sembra che abbia ragione Cavallaro a segnalare che storicamente il riferimento è un’economia compiutamente pianificata da un’autorità altrettanto generale e centralizzata. Il che non va. Il novecento qualcosa ha insegnato. Ma non mi pare che le pratiche di socialità della rete no-global abbiano molto a che fare con le esperienze esemplari ottocentesche, cui fa riferimento Mazzetti. Sono il segno di una diffusione e insieme diversità di esperienze, più che tentativi di aggregazione a una modello risolutivo. Può certo non piacere, apparire ingenuo, espressione di un pensiero debole, ma non mi pare si tratti di una replica infantile di Owen o Proudhon.
Il punto è se è davvero possibile oggi, e necessaria un’altra generalità teoricamente formalizzata da opporre al modello forte del capitale? Mi domando se non sia utile mettersi proprio dal lato del particolare non traducibile in un modello ‘istituzionale’ per il pianeta. E provare a stare su quel particolare terreno, per costruire una teoria del nuovo antagonismo politico essendo disponibili a cambiare paradigma, magari a partire dalla molteplicità – disseminata e conflittuale per quanto contigua al mercato – delle forme di cooperazione, scambio, consumo alternative. Le osservazioni di Cavallaro e Mazzetti hanno infatti il fascino intellettuale e insieme il difetto di suonare un po’ paralizzanti: inchiodano il movimento di fronte alla crisi dell’ultimo secolo e gli chiedono di superare l’esame. Secondo me non si fa.
Il suo senso e la sua ragion d’essere potrebbero essere già altrove, fuori del novecento. Altre le domande giuste e possibili, per un conflitto che ritorna non come guerra di eserciti, stati o partiti, ma nella forma di una guerriglia ‘materiale e immaginaria’ che soggetti politici straordinariamente segnati dalla loro soggettività, praticano nel mercato (e fuori) sottraendo territori per creare repubbliche (cose pubbliche) fatte di altre relazioni politiche, quindi di altre economie, beni comuni e relazionali, valori d’uso – scambi fra chi si ama e si conosce, appunto. Insomma un conflitto che mira a creare micro istituzioni politiche, della società: nuove polis capaci di riconoscersi e sottrarre spazi, costruire pacifiche barricate, più forti e leggere per il fatto di difendere luoghi già altri. Comuni. In un modo che potrebbe determinare frane.
Sarebbe un po’ come pensare una società non tanto rivoluzionata (e riorganizzata da un nuovo centro che tenga tutto finalmente sotto controllo) quanto rivoluzionaria: con una possibile grande vitalità (sempre incerta e con il senso del limite, come si conviene alle cose umane) nella costruzione di legame sociale, relazioni ravvicinate di biopolitica, rapporto con l’ambiente, esodo – anche sul piano simbolico – dal totalitarismo dell’economia capitalistica (per questo, credo, non si poteva non andare a Genova, non si poteva trovarsi in un convegno altrove: bisognava fare il tentativo di mostrare ‘sulla scena’ – teatralmente e attraverso l’ironia magari – come il re fosse nudo con i suoi manganelli).
Poi certo questa costellazione di pratiche di economia etica e affettiva, può non costituire un vero firmamento di riferimenti complessivi: la formalizzazione compiuta di ‘un altro modello di sviluppo’ – che dovrebbe essere orizzontale ma non di mercato, politico ma non di potere. Tuttavia queste isole più o meno felici che cercano di ‘fare arcipelago’, potrebbero non limitarsi a sopravvivere ai margini dell’impero – che forse non ammette neppure ‘margini’. Vedremo se le terre comuni e le nuove comunità che li vivono (di cui ha scritto De Angelis) avranno la forza e la gentilezza di non scavarsi private nicchie particolari, ma di costruire un altro spazio pubblico. Come in un grande patchwork, pezzo per pezzo, il tessuto di un altro mondo. Possibile.

* Vice direttore di ‘école’