«Ultimo ingresso». E Israele si blinda sempre più

Perlustrando il percorso del muro ieri il premier israeliano Ehud Olmert predicava flessibilità. Al valico di Ephraim, costruito nove mesi fa e diventato il principale terminal per quei pochi palestinesi che ogni giorno entrano in Israele dal nord della Cisgiordania, ha anche sollecitato le autorità responsabili a prorogare l’orario di apertura. Peccato che non mostri altrettanto interesse per le tragedie che al ponte di Allenby (tra Cisgiordania e Giordania) all’aeroporto di Tel Aviv e ad altri valichi, sta causando a decine di migliaia di palestinesi.
I comandi israeliani sostengono di aver adottato una linea più morbida, in modo da consentire l’ingresso o il rientro nei Territori occupati ad un numero maggiore di palestinesi e stranieri ma poco o nulla è cambiato rispetto a qualche mese fa. Un numero enorme di persone rischiano l’espulsione. A denunciarlo è stata ieri, con una conferenza stampa a Ramallah, la Campagna per il diritto all’ingresso nei Territori occupati palestinesi. «Il coordinatore israeliano per i Territori occupati, Yossef Mishlev, a fine dicembre aveva inviato una lettera a Saeb Erekat (consigliere del presidente Abu Mazen) per informarlo che Israele avrebbe allentato le sue misure restrittive, ma sul terreno è come prima», ha protestato l’avvocato Ghassan Abdallah, che guida la campagna. «Genitori con i figli in braccio vengono respinti alla frontiera nonostante abbiano vissuto per anni in Cisgiordania oppure vengono avvertiti che non potranno tornare più quando usciranno la prossima volta per rinnovare il loro visto».
Israele, che ha occupato militarmente Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est nel 1967, continua ad avere il pieno controllo del registro della popolazione palestinese. Ogni singolo documento anagrafico deve ottenere l’approvazione di Israele, che controlla tutti gli accessi alla Cisgiordania. Decine di migliaia di palestinesi – 120mila secondo i dati in possesso di Abdallah – vivono nei Territori occupati con visti turistici (con una validità di tre mesi) o più spesso con documenti scaduti che le autorità israeliane rifiutano di rinnovare. Di recente molti palestinesi e cittadini stranieri (anche occidentali) che risiedono o lavorano in Cisgiordania con il visto turistico emesso da Israele si sono visti stampare «Ultimo ingresso» sul passaporto. Ciò significa che passati tre mesi dovranno lasciare i Territori occupati e non farvi più ritorno. «Sono sposata da sette anni con un abitante di Ramallah e sono madre di due bambini. Non ho mai ricevuto il permesso di residenza permanente e continuo ad andare in Giordania ogni tre mesi per rinnovare il visto. Ora i militari israeliani mi hanno avvertito che non riceverò altri permessi. Ho detto che non possono staccarmi dai miei bambini, loro hanno risposto di portarli via con me», ha raccontato Haniya A., nata a Ramallah ma cresciuta negli Usa. Il provvedimento ha colpito anche cittadini europei, tra cui diversi italiani, e statunitensi sposati con palestinesi. L’intervento dell’Unione europea ha impedito l’espulsione silenziosa dei cittadini occidentali che, si dice, presto riceveranno visti della durata di 27 mesi.
I palestinesi denunciano che sono favoriti solo coloro che non hanno origini arabe. «I palestinesi sono in pericolo anche se hanno un passaporto europeo o americano. Se le persone interessate sono occidentali senza origini palestinesi, allora hanno buone speranze di vedersi rilasciare questo visto di lungo periodo di cui si parla», ha affermato Kamal Qaisi, un palestinese con cittadinanza italiana residente a Betlemme. L’ultima «novità» riguarda il «doppio visto». In futuro gli stranieri che vorranno entrare in Cisgiordania, una volta giunti in Israele dovranno chiedere un permesso. Ciò accade già per Gaza e proprio tenendo presente quella situazione, è ovvio che il provvedimento impedirà a volontari, pacifisti, ricercatori, docenti universitari e tanti altri stranieri, di entrare in Cisgiordania.