La forbice Classi sempre più distanti e sempre più bloccate: i conti delle diseguaglianze che la politica non cura
Lo stato sociale italiano non «serve» a ridurre le disuguaglianze. E’ questo una delle denunce più amare del Rapporto sullo stato sociale per il 2005 del Dipartimento di economia pubblica dell’università La Sapienza. Rapporto che si apre proprio con una approfondita analisi dello stato delle cose riguardo alla distribuzione dei redditi: non limitandosi però a dire di quanto questa è aumentata o diminuita – più forte la prima che la seconda tendenza, ovunque – ma cercando di capire l’impatto che, sulla sorte delle diseguaglianze, ha la politica pubblica e in particolare quella dei welfare state. E la risposta non è confortante: se l’Italia, quanto a indici della diseguaglianza «di mercato» – ossia prima dell’intervento dello stato come spese e come imposte – è in una posizione mediana tra gli estremi dati dai paesi anglosassoni dal lato più diseguale e quelli nordici dal lato più egualitario, la nostra posizione peggiora e di parecchio se si va a guardare al reddito disponibile delle famiglie dopo l’intervento pubblico. Molto preoccupanti, nei paesi anglosassoni come da noi, anche gli indicatori sulla diseguaglianza intergenerazionale: ossia della trasmissione di padre in figlio delle posizioni di privilegio o di indigenza. Tre indici. La diseguaglianza, dicono i curatori del rapporto, si può misurare in diversi modi: guardando le retribuzioni individuali da lavoro e le relative forbici, oppure i redditi familiari complessivi, comprensivi dunque anche delle rendite e di altri proventi «di mercato», oppure guardando al «reddito disponibile» finale, quello che resta dopo le tasse e dopo i trasferimenti pubblici. Il primo indicatore, dagli anni `80 a oggi, vede un netto aumento nei paesi nei quali le diseguaglianze «di mercato» sono sempre state più spiccate – il gruppo degli «anglosassoni» -, mentre aumenta di poco nei paesi nordici (Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia), e in quelli «continentali» (Francia, Germania, Olanda e Italia). Innovazioni tecnologiche, globalizzazione, aumento della flessibilità del lavoro e «boom» delle retribuzioni dei manager (i cosiddetti «working rich») sono tra i principali responsabili di questo fenomeno. Ma le cose cambiano e le proccupazioni si avvicinano a casa nostra se si guarda ai redditi familiari «di mercato»: qui l’aumento della diseguaglianza colpisce ovunque, dagli Stati uniti all’Italia alla Germania, ed è dovuto, secondo gli autori del rapporto, alle variazioni dei nuclei familiari e al calo dell’occupazione. Non a caso l’unico paese in cui tale indicatore di disuguaglianza scende è l’Olanda, che è anche l’unico con forte aumento dell’occupazione.
Ma quel che più pesa sul giudizio sul welfare italiano è il terzo indicatore, quello che registra le diseguaglianze dei redditi disponibili, comprensivi dunque dei trasferimenti pubblici e al netto delle tasse. Qui il peso dell’azione redistributrice del welfare state dovrebbe essere più visibile e forte. Qui le sorti dei paesi si divaricano: l’Olanda e la Germania di avvicinano ai paesi nordici (più egualitari) mentre la Francia e l’Italia sono molto più «anglosassoni». Il nostro, in particolare, è nel gruppo dei paesi nei quali la diseguaglianza dei redditi disponibili è aumentata di più.
Eredità. I paesi più diseguali sono anche tra i più «immobili», socialmente parlando. L’analisi delle principali teorie in materia di distribuzione del reddito permette agli autori del Rapporto di sfatare un mito abbastanza diffuso: quello della mobilità sociale, secondo il quale negli Stati uniti e in Gran Bretagna i ricchi sono più ricchi, ma tutti possono diventare ricchi. Gli autori analizzano la mobilità tra generazioni, la possibilità che i figli salgano a una classe sociale superiore rispetto a quella dei padri: nei due paesi appena citati «la quota delle diseguaglianze trasmesse è di circa il 50»», mentre nei paesi nordici è molto più bassa, va dal 15 al 27%. Quanto all’Italia, si parla di una mobilità intergenerazionale inferiore a quella degli Stati uniti. Ma in questo caso gli imputati principali non sono i livelli di reddito e ricchezza (che pure contano) ma le condizioni dell’istruzione e del nostro sistema formativo complessivo, dalle elementari all’università.