La messa in competizione reciproca di lavoratori, sistemi sociali e livelli tributari è una delle sfide centrali che ci pone la globalizzazione dei mercati finanziari come quella delle catene di produzione. Contrariamente ai capitali, che per via di comunicazione elettronica si spostano in pochi secondi da un punto all’altro del globo, i lavoratori non possono godere della stessa mobilità. Ogni crisi di sovrapproduzione capitalistica conosce il paradosso per cui in un periodo di rilancio economico e alti profitti per l’azionariato, i licenziamenti continuano a lievitare e soprattutto nei settori dove il lavoro è ancora relativamente protetto. Ma quando, come oggi, la circolazione del capitale non è più soggetta a controlli e i mercati sono deregolati, questo paradosso si fa più acuto che mai.
Azionisti contro lavoratori
Prendiamo il caso recentissimo della Airbus. Questa compagnia che appartiene a un vero complesso industriale europeo, la Eads, ha commesse garantite per cinque anni, e i suoi utili solo per l’anno 2005 ammontano a 2.85 miliardi euro: un incremento del 17%. Profitti massimi, dunque, eppure all’azionariato non bastano, perchè gli utili degli investimenti arrivano solo dopo circa 8 anni. Gli azionisti chiedono tempi più brevi, e dunque che i contratti di lavoro a tempo indeterminato siano convertiti in contratti a termine, precari. Per questo si minaccia di licenziare sino a 22.000 lavoratori. Ma il concorrente principale, la Boieng americana, fa lo stesso, e minaccia di licenziare 7000 lavoratori tra il 2008 e il 2009.
Come di Airbus possiamo dire – visto dalla Germania – di Volkswagen, Telekom, Bayer ecc. La concorrenza sfrenata mette in scacco ogni tipo di resistenza sindacale e operaia che si limita a un livello locale o nazionale.
A disfare i sistemi sociali ci pensa la Ue
Per i sistemi sociali non va meglio, anche se i meccanismi sono differenti perché abbiamo a che fare con sistemi statali, dove la concorrenza non ha un ruolo così preminente. E’ qui che entra in gioco l’Unione europea: forte del dettato di Maastricht, che impone ai governi riduzioni drastiche della spesa pubblica e insieme regali tributari favolosi agli imprenditori, per pagare questa politica di arricchimento dei ricchi cerca di prendere soldi da altre parti. Li piglia dai disoccupati, dai malati, dai pensionisti, dai giovani in formazione, dal lavoro. E converte un basso livello di spese padronali in costrizione a lavori di qualsiasi tipo a qualsiasi prezzo liquidando diritti elementari alla protezione contro la disoccupazione; e le poche o zero tasse in fattori positivi per attirare investimenti.
La Ue non ha competenze sociali dirette, né le vuole. Vuole che i sistemi sociali e i sistemi fiscali restino di competenza puramente nazionale – in Germania con le leggi Hartz per i disoccupati si scende persino di livello: si punta a rendere responsabili i comuni per mantenere i disoccupati. Per parlarci chiaro ciò significa che si ambisce a situazioni come in Inghilterra o in Polonia: se il comune ha soldi sei fortunato e ti paga quel che basta per sopravvivere, se no sei fregato. L’idea maestra della Ue, con i suoi trattati di Maastricht, Nizza e Amsterdam, tutti inglobati nel trattato costituzionale che ora ci ripropone la cancelleria Merkel, è quella: per le esigenze del capitale (la cosiddetta «economia») – ossia per deregolamentazioni, moneta comune, protezione contro i mercati americani o asiatici o africani, controllo dei flussi esteri sul mercato del lavoro, riarmo – ci vogliono norme europee, che si sotraggono sovente al controllo dei parlamenti nazionali; mentre per le esigenze dei lavoratori, disoccupati, migranti, è addirittura proibita la creazione a livello europeo di comuni condizioni di vita e di lavoro. Il trattato costituzionale conosce nella Parte II (Carta dei diritti fondamentali) la «libertà del padronato», vieta invece una politica per livelli uguali o comparabili di tassazione, e un adeguamento dei livelli di protezione sociale. Questo potrebbe entrare in contraddizione con la libertà padronale e «distorcere la libera competizione».
Nei Trattati di Roma, 50 anni fa, figurava ancora l’idea che l’Europa doveva servire al progresso economico e sociale di tutti i suoi cittadini e che le condizioni di vita dovevano essere progressivamente adeguate verso l’alto. Questa idea non è solo scomparsa dai nuovi trattati, si è trasformata nel suo contrario: tutte le misure della Commissione europea di rendere paragonabili livelli di vita o di imposte, mirano allo scopo di aizzare la concorrenza e abbassare il costo del lavoro.
«Via, via di qui», dicono gli scandinavi
Che fare? Bisogna uscire dalla Ue, che è una macchina per distruggere lo stato sociale – rispondono tanti nostri amici scandinavi, che godono tuttora di livelli di protezione più alti che giustamente vogliono preservare. In parti delle nostre popolazioni si espandono invece considerazioni razziste del tipo: mettiamo insieme solo i “buoni” europei, quelli ricchi, mentre gli altri hanno forse meritato di esser sfruttati ma non certo di esser aiutati (i polacchi per esempio, non parliamo dei romeni o dei bulgari).
Dovuto alla globalizzazione del capitale ma anche a scelte politiche esplicite tendenti a rendere impossibile un’ altra guerra europea, abbiamo raggiunto sul nostro continente un livello di integrazione economica e politica che, pur difettosa che sia, potremmo sciogliere solo al costo di nuove guerre – economiche, politiche, forse anche militari. Il 70 % delle leggi oggi votate nei nostri parlamenti nazionali hanno le loro origini a Bruxelles. Il ruolo «indipendente» (dal controllo parlamentare) della Banca centrale europea è oggetto di forti critiche, ma chi propone seriamente di reintrodurre dazi e dogane tra i paesi Ue? Chi vuole proibire a un avvocato italiano di installarsi in Svezia, come fanno tanti medici tedeschi? E la moneta comune? Non è veramente la moneta, che crea i problemi, è la politica economica. Ma quella non si fa a Bruxelles, bensì in tutte le capitali europee, perchè i veri signori di questa Europa rimangono sempre i grandi complessi industriali e gli apparati politici che decidono a loro favore (più a livello nazionale che europeo).
Il peso politico delle esperienze
Allora, che fare? Gli autori della «Carta dei principi per un’altra Europa» propongono una soluzione internazionalista: uguali diritti sociali per tutti ovunque. Non solo per chi già oggi gode della cittadinanza Ue, ma per tutti i residenti. La vecchia idea per cui il progresso economico deve esser usato per aumentare e adeguare verso l’alto i livelli di vita di tutti deve finalmente realizzarsi.
Non lo si potrà fare appoggiandosi su meccanismi istituzionali creati per ottenere il contrario; ce ne vorranno di nuovi che combinino i diritti dei popoli all’autodeterminazione con la ricerca a livello continentale di soluzioni comuni per i problemi che abbiamo in comune. Per restare sui diritti sociali menzionamo soltanto un livello comune europeo per un salario minimo, un livello comune per le prestazioni sociali in caso di disoccupazione, di malattia, per le pensioni, l’educazione gratuita, e servizi pubblici estesi e di qualità. La riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali per tutti in tutt’Europa, diritto allo sciopero e contratti collettivi di lavoro a livelli anche sovranazionali, ecc.
La «Carta dei principi» domanda che l’Europa sia costruita diversamente. Ma per farlo ci vuole l’azione sociale, comune, dei movimenti, dei sindacati. La dimensione europea della lotta sociale deve diventare comune nei nostri interventi, con lo sciopero europeo, le campagne contro le direttive della Commissione (come la Bolkestein),e contro la militarizzazione dell’Europa.
* Marce europee contro la disoccupazione, la precarietà, l’esclusione