Tutti pazzi per Obama?

Come altri seguo con partecipazione la sfida di Barack Obama nella contesa democratica per la Casa Bianca, affascinato dalla passione politica che sta suscitando. Non credo però, come invece è stato sostenuto su Liberazione da Sansonetti e De Palma, che una campagna elettorale per le primarie rappresenti l’apertura di un nuovo ciclo. Talmente epocale da sconvolgere gli equilibri interni ed internazionali su cui si fonda il dominio degli Stati Uniti. Vedo anche io le novità. E’ innegabile il fatto che Obama rappresenti una scossa nel panorama politico, tale da attrarre fasce di popolazione solitamente indifferenti alla competizione elettorale. Una sua eventuale vittoria potrebbe portare una boccata d’ossigeno, dopo l’incubo degli 8 anni di Bush. Ed è anche importante il richiamo alla speranza, in anni in cui il consenso neo-con si è fondato sul dominio della paura. Però credo che la novità più significativa, alla quale noi abbiamo guardato come l’irrompere di una nuova generazione politica nello scenario globale, sia la nascita del movimento anti globalizzazione e contro la guerra, che continua a produrre iniziativa sociale e politica, come il primo social forum degli Stati Uniti o le lotte sindacali dei migranti. La mia convinzione nasce dalle parole e dai programmi alla base del discorso e del progetto politico di Obama. Che non dovrebbero essere ignorati, altrimenti rimane solo il fascino della sua brillante retorica. Un progetto che non ha grandi differenze con quello degli altri concorrenti. Un revival degli anni 60, senza la forza di mettere in discussione l’ american way of life , lo strapotere delle multinazionali, né la guerra, intesa come mito fondante la potenza nord americana. Anche il progetto di riforma sanitaria è molto più timido di altri. Il tutto condito da una propensione bipartisan, di continuo richiamo all’unità fra le fazioni dello scenario politico Usa. Non a caso il senatore afro-americano (in testa fra i candidati per donazioni dall’industria bellica e favorevole alla pena di morte ) ha recentemente dichiarato la sua ammirazione per Reagan. Un’ammirazione motivata dal fatto che l’ex attore presidente è stato, secondo Obama, il miglior interprete del cambiamento, poiché capace di cogliere l’avversione per gli eccessi degli anni 60 e 70 (ovvero, i movimenti sociali, sindacali,contro la guerra, per i diritti civili e delle donne). Il cambiamento, ossessivamente richiamato nella contesa elettorale, è più sintomo di umori profondi nella società nord-americana, spaventata dalla perdita di autorevolezza internazionale, dalla crisi finanziaria e dal timore di una recessione economica alle porte, che sostanziato da proposte concrete. Penso sia un errore lasciare sullo sfondo gli elementi strutturali del sistema politico ed economico nord-americano, per i quali il cambiamento, ha poche speranze di essere poco più che un’evocazione. Almeno per il cambiamento come lo intendiamo noi, nel senso della giustizia sociale e di una politica pacifista. Se è vero che il ciclo lungo neoliberista, (che come sostiene David Harvey, ha rappresentato negli States e a livello globale una “restaurazione di classe”), è in evidente crisi, non sembra Obama colui che può invertire questa tendenza. Ricordo come il primo Bill Clinton suscitò analoghi entusiasmi anche nel ’92, soprattutto in Italia, in molti che poi presero a modello quell’esperienza per liquidare il passato e dare vita a quella lunga transizione portata a compimento con, non a caso, la nascita del Partito democratico. Alla riabilitazione di Reagan da parte di Obama, corrisponde da noi quella di Craxi. Nei discorsi del senatore dell’Illinois, l’esortazione più incalzante è quella all’unità del popolo americano, alla grandezza degli Stati Uniti d’America, al contenimento dei conflitti, il tutto condito dall’onnipresente benedizione finale, quel God bless you , che unifica tutto lo spettro politico statunitense. Nulla di così dirompente o innovativo. Una sorta di “ma anchismo” a stelle e strisce. Come ha giustamente fatto notare Noam Chomsky in un’intervista alla Stampa «Se leggiamo cosa dicono e scrivono i consulenti elettorali dei candidati in campo è evidente che fanno i pubblicitari: tentano di vendere un prodotto. Il prodotto è il presidente. E lo vendono come fa la pubblicità, proprio come avviene per altri prodotti tipo le auto: niente informazioni ma immagini ed illusioni per indurti ad acquistare. Fra l’altro è l’opposto di quello che dovrebbe essere un mercato: consumatori informati che compiono scelte razionali nei loro interessi. Chi fa campagna elettorale vuole invece che gli elettori siano non-informati e facciano scelte irrazionali sulla base di illusioni. E’ drammaticamente vero negli Stati Uniti ma anche in altre democrazie industriali, a cominciare dall’Europa. La dimostrazione più evidente di quanto dico è il fenomeno Barack Obama». E esortato da Molinari che l’intervista, continua: Anche il giovane senatore afroamericano dell’Illinois è prodotto pubblicitario? «In maniera esemplare. Attorno a lui c’è grande emozione, viene descritto come un grande candidato, una grande speranza. E lui cosa dice? “Dobbiamo avere speranza”, “Superiamo il cinismo”, “Trasformiamo l’America”, “Svegliamo l’America” e così via. Sembra Reagan. Tentare di capire cosa vuole fare è davvero difficile. Ho ascoltato 20 minuti di programma su Obama alla Radio Npr, un’emittente liberal ed intellettuale, e non ha detto nulla in merito ai programmi». La sensazione che ha provato Chomsky nei confronti di Obama, è analoga alla mia dopo aver ascoltato Veltroni all’ultimo congresso Ds. Per queste ragioni credo che, pur auspicando una sua vittoria, ciò non deve illuderci. Né farci pensare che ciò possa essere determinante nel risolvere le nostre difficoltà nella vecchia Europa. L’anomalia europea, rispetto al modello statunitense, è nella presenza, per quanto debilitata dal ventennio neoliberista, di organizzazioni sociali e politiche espressione del movimento operaio e della sua autonomia. Questa è la diversità dell’Europa. Da questa diversità può rigenerarsi una sinistra, politicamente e culturalmente non subalterna, che non voglia cancellare il secolo breve e le sue conquiste democratiche e civili, il portato di liberazione dall’oppressione coloniale che questo ha rappresentato. Perché altrimenti costruire una sinistra unita, se non per resistere a quella che abbiamo tutti definito “americanizzazione” del sistema politico e sociale europeo e per lanciare una sfida di egemonia al disegno neocentrista del Pd? In questo l’esempio della Linke è secondo me, molto più calzante. La Linke si afferma perché capace di rimettere al centro del dibattito politico la giustizia sociale e l’opposizione alla guerra. Nel tornare a parlare del socialismo come alternativa di società al capitalismo neoliberista. Nel suo essere connotata socialmente, non neutrale o interclassista. Nel porsi come alternativa al neocentrismo della Spd e nel contenderle la rappresentanza politica del mondo dei lavori. Se vogliamo rifondare la sinistra in Italia e in Europa, (una sinistra di trasformazione, con una visione di classe e anticolonialista, per la critica del capitalismo) dagli Stati Uniti, dobbiamo sì saper cogliere gli elementi di novità e leggere ciò che accade nel profondo, ma continuare a guardare ai movimenti sociali come laboratorio per un’alternativa. Negli Stati Uniti inoltre esiste una sinistra, ma che non ha la capacità di unirsi, né di essere rappresentata in un sistema politico e sociale che si fonda sul dominio delle oligarchie. Alle quali anche Obama sarà inevitabilmente costretto a rispondere, nel caso, per nulla scontato, che sarà un democratico alla fine ad avere la meglio. Non basta per parlare di nuovo ciclo un semplice nuovismo estetico, fatto di sensazioni e simboli. C’è bisogno di densità sociale e di soggetti, di coscienza, si sarebbe detto un tempo. Il mondo nuovo che vogliamo, il nostro cambiamento, non può essere generico o indefinito, semplicemente “nuovo” , ma teso alla conquista di un’alternativa di società, per la liberazione dell’umanità dall’alienazione e dallo sfruttamento.

*responsabile Esteri Prc