Tutti i padroni della guerra

Alle compagnie americane di armi, petrolio e tecnologie andrà la fetta più grossa.

In una “blacklist” del Pentagono le grandi escluse dall’affare della ricostruzione. “Sanzioni” a chi aveva rapporti con l’Iraq: la Shell, l’italiana Eni e la francese TotalFina
La guerra ha i suoi signori e padroni, e il suo andazzo ne esplicita le logiche spartitorie. Sicché siamo già, all’undicesimo giorno di questa nuova campagna irachena, alla formulazione della lista degli inclusi nel gran circo degli affari prossimi venturi e, viceversa, alla puntigliosa elencazione degli esclusi. Quella che il Financial Times chiama the Pentagon blacklist: la lista nera del Pentagono.
Nella logica della Bush connection significa una bella e comoda spartizione del mondo in “buoni” e “cattivi”. I primi – la famiglia, gli amici, gli alleati fedeli, quelli che hanno finanziato le campagne elettorali e foraggiato la macchina mangiasoldi dei comitati – da premiare e mettere in corsa per l’accaparramento di risorse, aree da conquistare e ricostruire, settori su cui mettere saldamente le mani da qui all’eternità. I secondi – gli infedeli, i tiepidi, i contrari, quelli su cui non si può contare più di tanto, quelli che potrebbero diventare i nuovi nemici da abbattere – irrimediabilmente tagliati fuori, una volta per tutte.

Così, ieri, il dorso “Affari e Finanza” della “Repubblica” ha pubblicato l’elenco delle “Top 100”: società, gruppi e compagnie che dalla guerra otterranno un significativo incremento nel giro d’affari. Le prime sono naturalmente quelle “militari”, che forniscono armi e strumenti di guerra e di morte al dipartimento della Difesa: Lockeed Martin, Boeing, Northrop Grumman, Raytheon, General Dynamics, United Technologies. Ma vi sono compresi anche nomi di tutto rilievo di società “civili” come: General Electric, Honeywell, Itt Industries, North American Airlines, Dell Computers. E ancòra la Halliburton del vicepresidente Dick Cheney (che ha già ottenuto un appalto di un miliardo di dollari dall’amministrazione Usa per spegnere i pozzi di petrolio incendiati da Saddam) e stelle di prima grandezza nelle tecnologie come Worldcom, Ibm, At&t, Motorola.

Persino la John Hopkins University, assieme a tanti altri bei nomi nascosti nei fondi d’investimento che ormai governano la massima parte dei flussi finanziari americani. Come quel fondo Carlyle in corsa in Italia sul fronte degli immobili pubblici e che sta per rilevare la Fiat Avio in società con la holding pubblica Finmeccanica. Vengono infine le immancabili compagnie petrolifere: Exxon Mobil, Kuwait Petroleum, Caltex Oil, National Oil Distribution, Bahrain Petroleum. E’ interessante e rivelatore il fatto che le due compagnie petrolifere del Kuwait e del Bahrain siano state inglobate senza indugio tra le società americane a cui è destinata una fetta della ricchezza che verrà sottratta a Saddam Hussein e al popolo iracheno.

Sul fronte opposto ecco s’avanza la lista degli esclusi eccellenti, in prima fila la Shell, l’italiana Eni e la francese Elf-Total-Fina. Si dice che il Pentagono stia preparando e aggiornando una segretissima blacklist di compagnie straniere, in particolare europee, che potrebbero essere sottoposte a “sanzioni” da parte del governo degli Stati Uniti, ancorché appartenenti a paesi che fanno parte della coalizione che sostiene la guerra di Bush, ma che per le loro attività hanno o hanno avuto relazioni o branche operative insediate nei cosiddetti “paesi canaglia”: l’Iraq, l’Iran, la Corea del Nord, in parte la Libia e domani, chissà, la Siria. Paesi a cui gli Usa avevano applicato l’Ilsa (Iran-Libya Sanctions Act) nel 1996, rinnovato (e allargato) nel 2001, a cui a mano a mano sono stati aggiunti altri territori fuori controllo (ad esempio la Somalia).

Sull’esistenza di una tale blacklist di compagnie “sgradite” il portavoce del Pentagono non rilascia commenti, ma alcuni operatori sostengono che l’applicazione e l’estensione dell’Ilsa avrebbe lo scopo di “prendere due piccioni con una fava”, da un lato esercitando pressioni economiche insostenibili nei confronti dei paesi sotto sanzione e dall’altro sostenendo la disastrata economia americana e aiutando le compagnie più stressate dalla crisi.

Le società escluse verrebbero completamente tagliate fuori dalle commesse pubbliche e dai contratti di fornitura da parte del governo Usa, sicché la prima tranche per la ricostruzione dell’Iraq, prevista in un intorno di 900 milioni di dollari, sarebbe destinata a esclusivo beneficio delle prime quattro o cinque compagnie americane.

E s’acquattano e affilano le armi anche le società britanniche. Un’ottantina di loro hanno già avviato una trattativa con i rappresentanti del governo per un incontro nei primi giorni di aprile, organizzato dall’Ufficio britannico dei consulenti e dei costruttori, nel tentativo di assicurarsi l’intera quota di contratti per la ricostruzione destinati agli alleati, per un primo ammontare di due miliardi di dollari, che inizialmente sembravano riservati a un gruppo molto ristretto di imprese. Gli ottanta rivendicano invece che ciascuno abbia la sua fetta di torta. Così siamo all’undicesimo giorno di guerra e già al primo di una lite planetaria.