Tutte le balle del presidente, raccontate da Bob Woodward

George Bush continua a perdere amici, tanto che rischia di restare «solo con Laura e Barney» (il suo cane) come lui stesso dice nell’ennesimo libro che racconta la Casa bianca a riflettori sono spenti. L’autore Bob Woodward, quello del Watergate, non è propriamente un amico di Bush, ma nel suo libro precedente del 2002 aveva raccontato come era nata l’avventura irachena (Bush aveva dato istruzione a tutti i suoi uomini di parlare con Woodward e di rispondere a tutte le sue domande) in modo talmente asettico – perfino quando aveva riferito l’allarmante particolare che Bush sosteneva di avere chiesto consiglio «solo a Dio» – che l’immagine finale era risultata quella di un presidente giudizioso, risoluto e perfino dotato di «visione».
Stavolta Woodward la butta sullo psicologico fin dal titolo, «State of denial», dipingendo un Bush impegnatissimo nell’operazione freudiana di «rimuovere» dalla sua mente ogni aspetto negativo, fino a farsi «intrappolare nelle sue stesse certezze». A quattro anni di distanza, dunque, la tesi di Woodward è rovesciata: il più importante paese del mondo, dice in pratica, si ritrova guidato da un uomo che si comporta come quei re delle fiabe che danno udienza solo a chi porta buone notizie. I primi commenti sul libro ritorcono la cosa contro lo stesso Woodward, che forse è stato così severo con il presidente per liberarsi del senso di colpa del ritratto precedente. In «State of denial» non ci sono particolari novità, almeno nel mondo delle rivelazioni giornalistiche. Il fatto che il rapporto fra Bush e la realtà ricordi quello dei passeggeri del Titanic che con mezza nave già inabissata lamentavano la carenza del servizio potrebbe costituire una novità solo per le selezionatissime folle adoranti che accolgono Bush nei suoi viaggi per raccogliere soldi. E quanto al fatto che le «ragioni» per invadere l’Iraq siano state brutalmente inventate, «lo sappiamo – dice Frank Rich, brillante columnist del New York Times – sin dal luglio 2002, quando otto mesi prima dell’invasione venne alla luce il memo di Downing Street», cioè il rapporto del capo dello spionaggio inglese che di ritorno da un viaggio a Washington spiegò a Tony Blair che il governo americano stava «adattando i fatti e le informazioni» alla «decisione predeterminata» di andare all’assalto dell’Iraq.
Se dunque la «prigione di bugie» in cui il presidente americano si è rinchiuso da solo è un fatto pressoché acclarato, a dare a questa nuova fatica di Woodward un certo valore resta il fatto che lui, usando una ben nota abilità di carpire informazioni (e forse sfruttando le benemerenze acquisite con il libro precedente) fornisce uno «spaccato» della vita della Casa bianca che ne fa a pezzi l’ultimo baluardo: la disciplina da monolite in cui tutti i suoi componenti operano come un’esercito ordinato affinché le idee del capo avanzino senza intoppi.
In questo senso, le cose «raccolte» da Woodward rovesciano alcuni consolidati luoghi comuni. Vediamo per esempio il «mite» Andrew Card, ex capo dello staff della Casa bianca, allearsi con la first lady Laura e insistere che sarebbe il caso di licenziare Donald Rumsfeld e sostituirlo con James Baker (il presidente sembra propenso a seguire il suggerimento finché non arriva il solito Dick Cheney che spiega al re titubante che il licenziamento darebbe un «segnale negativo» a tutto il mondo). Ecco la «risoluta» Condoleezza Rice piagnucolare con Bush perché quando telefona a Rumsfeld lui è sempre «occupato» e non la richiama mai. Ecco il capo della Cia George Tenet dire a tutti che l’Iraq non è un «pericolo imminente» ma non ha il coraggio di dirlo al presidente. Qualunque cosa Woodward racconti, fra le persone che circondano Bush non ce n’è una che dica almeno una volta, magari per sbaglio, la verità. E lo racconta con una tale messe di dettagli gustosi che valgono sicuramente la pena di essere letti.