Un popolo di eroi, navigatori e poeti ma, a sentire le dichiarazioni del governo italiano dopo la morte del soldato italiano a Nassiriya, anche di rétori bugiardi e sulla pelle altrui. «E’ il momento del dolore, ma rimarremo fin quando ce lo chiederà il governo legittimo», dice Fini e Berlusconi rilancia: «E’ un sacrificio dolorosissimo» ma serve «alla libertà». Insomma, ci dispiace tanto, tuttavia… come se nulla fosse continueremo a far parte della coalizione dei «volenterosi» che occupa militarmente l’Iraq. Del resto se non era accaduto per la strage nella base italiana del novembre 2003, né dopo la feroce battaglia dei ponti, perché ora l’Italia dovrebbe ripensarci? Petto in fuori dunque, oggi arriva la salma, tricolore a mezz’asta, solidarietà a parole alla famiglia, che a mezza bocca fa capire quanto Simone Cola fosse restio a partire dopo la nascita della figlia, e…tutto come prima. Qual è la verità? A Nassiriya – più volte presentata come il regno della tranquillità grazie all’«opera» della governante Barbara Contini, che invece ha fatto terra bruciata – c’è l’inferno. I nostri soldati stanno asserragliati nei loro quartieri fuori della città. Le milizie di Moqtada al Sadr, ora filogovernativo e sempre antagonista al leader sciita Al Sistani, fanno il bello e il cattivo tempo. In più, dopo la vicenda delle foto sulle torture agli iracheni nella prigione britannica presso Bassora, Nassiriya torna nel mirino, visto che le truppe italiane continuano a consegnare i prigionieri proprio ai militari britannici. Così lì non vedono tanto la differenza tra gli altri soldati e la «brava gente» che noi rappresenteremmo. E siccome «formalmente» non siamo in guerra, i nostri soldati pattugliano con elicotteri inadeguati, salvando così la faccia del governo Berlusconi. Non la pelle dei militari sul posto però. Ed è certo che l’arrivo degli elicotteri da guerra Mangusta oltre a strappare il velo sulla natura della missione, non servirebbe allo scopo, visto che in Iraq la guerriglia è riuscita ad abbattere decine di più potenti elicotteri americani.
Ma verso quale obiettivo stiamo andando è ancora difficile capire, mentre in Iraq tutto precipita al peggio e le elezioni, nonostante l’avallo dell’inviato dell’Onu, vedranno non libere elezioni ma una specie di farsa utile solo all’avvento della seconda era Bush che già annuncia una pericolosa litania di interventi preventivi. Metà Iraq è impossibilitata a votare, le quattro più popolose province sono insorte. Gli iracheni sanno che dal voto uscirà il predominio degli sciiti, già emarginati da Saddam Hussein e ora in rivalsa sui sunniti. Mentre ai sunniti non è stata data l’unica soddisfazione che chiedevano per poter partecipare: la data certa del ritiro degli occupanti americani. La commissione elettorale ha escluso forze e partiti contrari al governo del premier fantoccio Allawi, del quale l’autorevole New Yorker, nel giorno del discorso al mondo di George W. Bush, ha resocontato le gesta di assassino, con tanto di prove dei servizi Usa. L’esplodere del caso Chalabi, l’ex uomo del Pentagono, mostra che già siamo alla resa dei conti a Baghdad.
Dunque metà della popolazione non voterà, il governo non sarà legittimo perché non riconosciuto, il conflitto continuerà, sospeso sul baratro della guerra civile, con uno stillicidio di morti civili che andranno ad aggiungersi alle più di 100.000 vittime fin qui stimate – uno tsunami fatto da mano umana quanto preventiva. Il governo italiano, invece di porre un termine alla sua presenza militare, condizionandola davvero all’obiettivo della pacificazione tra le componenti della società irachena e a un nuovo ruolo centrale delle Nazioni unite, si schiera in armi dietro l’ultimo imperatore e dietro l’ultimo premier fantoccio, magari fino al referendum costituzionale di ottobre o alle nuove elezioni previste per il prossimo dicembre. E per i suoi morti «dolorosissimi, tuttavia…» invita ad esporre il tricolore a lutto alle finestre.
No, per favore. Torniamo tutti ad esporre il drappo arcobaleno della pace. Potrebbero essere a sinistra le primarie che mettono tutti d’accordo.