«L’eversione neofascista cos’era? Spontaneismo armato, reazione, nichilismo ideologico frutto di allucinazione culturale. Non c’era un progetto. Che quel terrorismo stragista abbia usato anche una manovalanza arruolata nell’estrema destra è vero. Ma resta il grande mistero su chi erano gli arruolatori». Nel marzo del 1997 erano bastate poche parole a Gianfranco Fini per rompere ciò che fino ad allora era sembrato essere quasi un tabù per la destra italiana: vale a dire la pura e semplice ammissione del ruolo svuoto dai neofascisti negli anni della Strategia della tensione.
Poche parole, quasi buttate lì durante un’intervista rilasciata dal leader di Alleanza nazionale al Corriere della Sera, per rompere un silenzio durato decenni. Frasi importanti, dunque, ma più per la memoria interna al neofascismo che per quella complessiva della storia repubblicana. Come liquidare infatti in poche frasi decenni di storia trascorsi a destra nell’attesa di una “rivincita” sul ’45? Una revanche immaginata prima con gli attentati dei Fasci d’Azione Rivoluzionaria (Far) e poi con la speranza di un putsh militare, modello greco o latinoamericano, e infine coltivata nell’applicazione della dottrina della “guerra controrivoluzionaria” attraverso le idee e le azioni di Ordine Nuovo, i cui dirigenti entravano e uscivano dal Comitato centrale del Msi. Insomma Fini se l’era cavata davvero a buon mercato, con un’ammissione generica che non esprimeva né un giudizio netto né il desiderio di una vera discontinuità rispetto alla sua famiglia politica di provenienza.
Potrà forse stupire che nel presentare Cuori neri, Sperling & Kupfer (pp. 798, euro 18,00), il libro che Luca Telese ha dedicato alle figure di 21 militanti di destra uccisi tra il 1970 e il 1983 – dai fratelli Mattei a Mikis Mantakas, da Sergio Ramelli ai ragazzi di Acca Larentia, da Nanni De Angelis a Paolo di Nella, e molti altri “delitti dimenticati degli anni di piombo”, come li definisce l’autore – si prenda spunto dalle parole di Fini sul ruolo dell’estrema destra in quella stessa stagione della recente storia italiana. Ma non si tratta di una forzatura o del tentativo di sviare, per così dire, il lettore di fronte alla difficoltà di “assumere” le vicende di cui Telese dà conto, per altro con notevole dovizia di particolari e testimonianze. Niente di tutto ciò, Cuori neri è un libro interessante, documentato e tutt’altro che “scomodo” per la sinistra. E’ un libro che prima di tutto dà un volto e una voce, attraverso i ricordi di amici, familiari e naturalmente “camerati”, a quella che per molti potrebbe altrimenti restare una semplice lista di caduti in una fase delle vicende italiane del dopoguerra nella quali i morti si sono contati più che a decine, a centinaia. E nessuno può vivere con disagio il fatto che si parli di queste storie, che si racconti ciò che è venuto prima dell’istante fatale che ha spezzato queste vite. Vite di neofascisti, per molti di noi vite di “nemici”. Il nodo da affrontare non è e non può essere questo.
Eppure l’uscita di Cuori Neri è stata accompagnata da una campagna all’insegna delle accuse di “rimozione”, se non peggio, rivolte alla sinistra. “Quei morti sconosciuti (e il sangue dei vinti) degli anni Settanta” ha titolato il quotidiano di An Il Secolo d’Italia, mentre il ministro postfascista Francesco Storace ha dichiarato che la sinistra «dovrebbe recitare il mea culpa per aver impedito a una minoranza il diritto a esprimersi». Quanto a Marcello Veneziani, all’epoca giovane missino, laureato con una tesi su Julius Evola e oggi intellettuale legato al Polo, ha precisato come «il vero dramma di quella stagione è che accanto alle decine di morti e alle centinaia di feriti, ci sono stati migliaia di discriminati. Eravamo una minoranza alla quale era stato negato il diritto a esprimersi». «Verso quella stagione – ha aggiunto Veneziani – il pendolo dell’intellighenzia italiana ha oscillato tra la demonizzazione e l’amnesia». Prese di posizione accanto alle quali vanno però ricordate anche quelle di figure attive, negli anni Settanta, tra le fila degli antifascisti. Come quella di Oreste Scalzone che, intervistato dal Corriere, ha spiegato: «Penso che per lungo tempo ci sia stato uno stillicidio, una sequenza di morti delegittimati anche nella memoria. Una stagione di latenza insurrezionale subacuta e cronica e di microguerra civile strisciante in cui ognuno tendeva a ricordare soltanto le vittime della propria parte».
Il desiderio di presentare il libro di Luca Telese come un testo “scandaloso”, nel senso che romperebbe l’equilibrio della memoria frutto dell'”egemonia culturale della sinistra” – tesi davvero difficile da digerire nell’epoca del revisionismo spicciolo di Porta a Porta dove perfino la vita familiare di Benito Mussolini è stata oggetto di estenuanti celebrazioni -, finisce però per mettere in secondo piano l’elemento forse più importante di questa ricerca. Telese è infatti andato alla scoperta di un universo simbolico che aveva sempre osservato dall’esterno. Ha varcato il confine che ha limitato per molto tempo – e per molti aspetti limita ancora oggi – il territorio dell’identità neofascista: quasi una sottocultura in grado, attraverso un vocabolario di segni e simboli, di preservare pressoché intatto il proprio nucleo centrale anche al di là delle trasformazioni radicali che si sono succedute all’esterno. E ha intrapreso, non a caso, questo percorso seguendo proprio la memoria dei caduti, il nucleo più profondo, intimo e quasi familiare, di questa identità. Perché questa scelta? Ma perché, spiega lo stesso Telese, «malgrado tutto, le mille divisioni della destra di oggi, non hanno fatto venire meno il senso di una comunità che è tuttora unita da una storia condivisa, da un mito corale». Al centro di questo mito c’è il piccolo pantheon dei caduti negli scorsi decenni, «ricordati con memoria ostinata, infaticabile e puntuale: con commemorazioni, veglie, striscioni e manifesti; con la cerimonia marziale del “Presente! “, il saluto gridato ai camerati inquadrati in drappello».
Il “cuore nero” che Telese ha cercato – mutuando per altro questa definizione dal repertorio della cosiddetta “musica alternativa” di estrema destra, e in particolare da una canzone che porta il titolo di “Claretta e Ben”, che ha fatto del mantenimento delle radici profonde del neofascismo la propria principale ragion d’essere – non è perciò quello dei morti, ma quello dei vivi. Le 21 storie raccontate nel libro ci parlano molto di più di quello che è oggi “la comunità” nera, di quanto non ci dicano della sua storia passata. «Un militante di Autonomia e uno dei Ds si incontrano molto raramente. Un camerata “extraparlamentare” e uno “istituzionale” si combattono, anche con ferocia, ma non rinnegano la loro radice unitaria, la comune memoria dei propri martiri», spiega Telese che precisa: «Intorno a questo nucleo di passioni si alimentano un immaginario collettivo, un mondo di simboli quasi mitologici e un vero e proprio “culto” che dura da un quarto di secolo».
Gli elementi biografici, le storie di molti dei protagonisti dell’attuale destra “postfascista” sono inestricabilmente legate a molte delle tragiche vicende raccontate in Cuori neri. «Il battesimo del sangue diventa contemporaneamente trincea di autosopravvivenza, banco di prova e scuola quadri di un’intera generazione – racconta Telese -: non è un caso che Gianfranco Fini e Maurizio Gasparri cementino la loro amicizia al funerale dei fratelli Mattei; che la moglie del leader di Alleanza Nazionale, Daniela, rimanga ustionata quando dentro la sua sezione piove una bomba incendiaria; che il futuro ministro Francesco Storace abbia visto i proiettili forare il tebellone su cui stava affiggendo un manifesto durante un attacchinaggio; che Gianni Alemanno abbia perso il suo più caro amico; che Massimo Morsello, futuro latitante, e cosiddetto “DeGregori nero”, cantautore culto dei giovani di An e fondatore di Forza nuova, abbia visto morire a pochi metri da sé un altro coetaneo, Alberto Giaquinto».
Ma c’è anche dell’altro, c’è il senso di un’identità che, in profondità, non sembra essere disposta a mutare. Ciò che con una formula si potrebbe rendere nell’impossibilità di mettere in soffitta, dopo Benito Mussolini, anche Giorgio Almirante. Il culto dei caduti, intorno al quale non c’è Fiuggi che tenga, non c’è strappo con il passato che resista all’urto del richiamo identitario, indica tutti i limiti di una trasformazione che, se si è in parte fatta politica, forse non sarà mai anche antropologica. E’del resto lo stesso Telese ad affermarlo fin dall’introduzione del suo libro: «I “cuori neri” pesano oggi sull’identità della destra più delle memorie del Ventennio: se è vero che il viaggio di Gianfranco Fini in Israele ha sistematizzato la tormentata pagina di Salò, è vero che i morti degli anni Settanta restano una pagina non risolta, al punto che il partito, oggi, continua a dividersi (a volteschizofrenicamente) tra il culto radicale dei “ragazzi neri” e quello pragmatico del governo».
Per questo le poche frasi di Fini sulla violenza neofascista negli anni Settanta, stragi comprese, suonano come un’inquietante conferma di una memoria congelata, ferma a quella stagione di sangue. Sono parole che mostrano tutta l’incapacità di questa comunità a guardarsi davvero dentro, a comprendere non solo quanto si è subito, ma soprattutto ciò che si è davvero fatto. Perfino i 21 morti di Cuori neri si vorrebbe rimetterli al loro posto di combattenti, stavolta contro “le rimozioni” della sinistra.
Non capendo che delle loro vite ferite c’è oggi solo bisogno di parlare, per ridare voce a quanti, ed è accaduto anche a tutte le altre vittime di quella stagione, sono diventati spesso solo dei nomi in una tragica statistica.