Turchia, specchio dell’ordine mondiale

Nato e ordine mondiale.

Il silenzio della stampa italiana al dramma dei detenuti politici che in questi giorni protestano contro le condizioni disumane del sistema carcerario in Turchia, ci invita a riflettere sulla questione dei diritti umani e sull’uso che se ne fa nel linguaggio della politica. Un elemento si affaccia, innanzitutto, a una prima considerazione: la distanza di quel silenzio dal clima di fervore che, in occasione della guerra della Nato contro la Jugoslavia, si impose a tutti, partiti e mezzi di informazione, a favore della difesa dei diritti delle popolazioni albanesi del Kosovo, fino al punto di giustificare gli effetti distruttivi delle armi con gli scopi umanitari.
Quella guerra è stata per la Nato – e per gli Usa – il banco di prova per ridefinire la propria funzione nell’ordine mondiale. A partire da quell’occasione il carattere difensivo dell’Alleanza si è trasformato nel nuovo concetto di “alleanza strategica”: il punto di novità è l’impegno per i paesi membri a condurre “operazioni di risposta” anche alle crisi che possono insorgere al di fuori del territorio dell’Alleanza. Si profila, così, un potenziale bellico pronto a intervenire ovunque venga a configurarsi una crisi politica, etnica, sociale e religiosa, senza limiti di geografia e di sovranità degli stati attaccati. E se, da un lato, è un processo di erosione dei confini e dell’autorità dello stato nazionale, dall’altro, è la conferma della vocazione imperialista dello stato nazionale che, al momento, dispone dell’apparato bellico più potente: gli Stati Uniti. Il nuovo concetto strategico fornisce agli Usa una forza armata di intervento ogni volta si profili una situazione non conforme ai parametri della sua politica economica e mondiale. Lo schema ipocrita della “ingerenza umanitaria” diventa così la giustificazione per intervenire in qualsiasi area del pianeta che abbia carattere strategico e piegare qualsiasi stato che non si adegui al nuovo ordine mondiale e agli assunti del neoliberismo. Quasi inutile aggiungere che in questo scenario non è difficile, per una potenza economica come gli Stati Uniti, creare forzosamente i presupposti per giustificare un intervento militare. C’è, infatti, l’imbarazzo nella scelta delle possibili strategie politiche o finanziarie per mezzo delle quali si possono fomentare conflitti etnici, religiosi e culturali, per poi lanciare grida d’allarme sui diritti violati.
Naturalmente, non ci vuole molto a capire l’ipocrisia della guerra umanitaria dato che il principio della difesa dei diritti umani non è stato, di fatto, applicato con coerenza in quelle regioni del mondo dove sono in atto atrocità e stermini.

Turchia: quando la violazione dei diritti umani non fa scandalo.

Una di queste regioni è proprio la Turchia, paese membro della Nato e oggi teatro di palesi violazioni dei diritti umani, individuali e collettivi. Si tratta di un’area strategica del quadro geopolitico del Mediterraneo, nel quale si inseriscono le mire di allargamento della Nato e gli interessi economici degli Usa: a nord si trovano la Grecia e i Balcani, a est le regioni caucasiche attraversate dagli oleodotti, a sud il Medio Oriente.
La Turchia è guidata da un regime dittatoriale che si mantiene al potere con la repressione del popolo curdo, delle minoranze, delle opposizioni politiche e sindacali. Il dominio è assicurato da un sistema di leggi antiterrorismo, di carceri speciali, di torture, di sparizioni, se non dall’impiego diretto dell’esercito e dai bombardamenti nei villaggi curdi del sud-est. Quanto basta per parlare di negazione dello stato di diritto: al suo posto vige non solo un regime di repressione dei conflitti sociali e politici, ma anche di annullamento di ogni forma di libera espressione del pensiero.
Di recente, tuttavia, le contraddizioni che stanno alla base del regime, sembrano esplodere in maniera drammatica, nonostante la stampa italiana ne abbia finora dato scarsissimo rilievo. Poche o nessuna notizia trapela delle morti provocate dalla protesta contro il sistema carcerario. Nessuno fra coloro che, al tempo del governo D’Alema, avevano appoggiato la guerra della Nato come “operazione umanitaria”, raccoglie oggi l’allarme disperato dell’associazione turca per i diritti umani (Ihd), per le vittime dello sciopero della fame dei detenuti delle carceri speciali antiterrorismo. La protesta per le durissime condizioni di vita nelle prigioni è solo un aspetto della lotta contro la repressione del popolo curdo e delle minoranze.
Gli scioperi della fame dei detenuti sono esplosi nell’ottobre scorso per bloccare la “riforma” che ha istituito le cosiddette carceri “F” di massima sicurezza per detenuti politici. Al posto dei dormitori ci sono le celle di isolamento, chiamate “bare”, dove è più facile annientare le capacità di resistenza fisica e psicologica di una persona. In queste condizioni i carcerati sono totalmente esposti alle violenze dei secondini e alla pratica della tortura. Per il governo turco la riforma è un rimedio al “sovraffollamento”. Di fatto, è una misura per impedire il contatto tra militanti di sinistra e altri detenuti. Da allora un migliaio di prigionieri – tra loro comunisti e appartenenti ad altre formazioni di sinistra – hanno iniziato lo sciopero della fame e, in qualche caso, dato vita a forme di proteste collettive nelle carceri di estrema sicurezza. La repressione, durissima, scatta nel mese di dicembre: nell’assalto a venti prigioni vengono uccisi trenta detenuti, mentre altri sono presi con la forza e trasferiti nei nuovi penitenziari. Lo sciopero della fame continua ora nelle celle di isolamento e negli ospedali, e nel frattempo si è allargato alle famiglie e agli amici dei detenuti, coinvolgendo centinaia e centinaia di persone. C’è chi ha digiunato per 180 giorni fino a trovare la morte e ad oggi le vittime sono salite a venti. Decine di persone sono in questo momento in condizioni di salute gravissime. Le richieste sono semplici: la fine incondizionata del regime d’isolamento nelle carceri e il diritto per i carcerati di incontrarsi durante il giorno, un negoziato diretto senza mediatori fra lo Stato e i rappresentanti dei detenuti, l’abolizione della legge contro il terrorismo e del Tribunale di sicurezza dello Stato, la liberazione dei prigionieri che digiunano.

Intreccio fra politica, corruzione e crisi economica.

Alla situazione delle carceri si aggiunge una grave crisi economica che sta gettando la Turchia sull’orlo della bancarotta finanziaria. Dalla fine di febbraio la valuta turca ha perso oltre il 40% del suo valore rispetto al dollaro. Il deficit dello stato è passato in dieci anni dal 30 al 65 per cento del Pil. L’inflazione si mantiene a livelli altissimi e per il 2001 si dovrebbe attestare intorno al 52,5 per cento, contro il 12 per cento previsto. Il governo del primo ministro Bulent Ecevit ha messo a punto un piano di risanamento conforme alle indicazioni del Fondo monetario internazionale, fra cui l’accelerazione delle privatizzazioni. La crisi e la ricetta liberista hanno provocato una serie di fallimenti a catena con decine di migliaia di licenziamenti di massa. Contro il piano di risanamento i sindacati stanno organizzando la protesta sociale con manifestazioni di 50 mila lavoratori.
Gli elementi di instabilità economica si intrecciano con la crisi di un sistema bloccato dalla corruzione che vede la politica ridursi a gestione mafiosa e speculativa di interessi clientelari. Gli esponenti dei partiti curdi sono oggetto di minacce e perquisizioni da parte della polizia, con l’accusa di far parte del Pkk, il partito dei lavoratori curdi messo fuorilegge. Così, all’invio di truppe e ai bombardamenti nei villaggi del sud-est, alle esecuzioni sommarie dei militanti impegnati nella lotta curda per il riconoscimento dei diritti elementari e di forme tenui di autonomie, si aggiungono i rapimenti e la scomparsa di aderenti a partiti riconosciuti dalla legge. Non a caso sulle montagne del Kurdistan sarebbero ripresi gli scontri. I militari controllano il principale organo politico della Turchia, il Consiglio nazionale di sicurezza, e l’esercito si arroga – senza alcun meccanismo di delega democratica – il ruolo di difensore dell’unità nazionale contro le minoranze.
Intellettuali, sindacati, lavoratori, associazioni premono per la democratizzazione del paese e per il rispetto dei diritti individuali e collettivi.

L’ipocrisia della guerra umanitaria e del governo D’Alema.

Eppure di fronte al dramma che in Turchia vivono i curdi, i detenuti e gli oppositori politici, non si sentono le voci che con tanto sdegno si erano levate in occasione della crisi del Kosovo. Se allora tutti i partiti politici, Rifondazione comunista esclusa, e la stragrande maggioranza dei mezzi di informazione, arrivarono persino ad ammantare la guerra per scopi umanitari, oggi nessuno di quel vasto fronte fa cenno delle violazioni sistematiche dei diritti umani in Turchia. Due pesi, due misure, quindi, che tradiscono l’ipocrisia di chi ha tentato di mascherare la propria subalternità alla Nato e agli Stati Uniti con il vessillo dei diritti umani, occultando nell’invenzione linguistica “operazione umanitaria” le bombe, i proiettili all’uranio, le vittime fra le popolazioni civili, le devastazioni ambientali, l’esasperazione dei conflitti etnici. Il contrasto tra allora e l’atteggiamento di indifferenza, oggi, per i crimini del governo turco, vale come conferma del livello di crisi toccato dalla democrazia italiana. La partecipazione alla guerra della Nato del governo D’Alema esprime, più d’ogni altra questione, il deficit di cultura democratica che sta gettando il paese nelle mani delle destre. Altro che rafforzamento del prestigio internazionale dell’Italia prodotto dalla guerra, come ha più volte detto il presidente dei Ds. Essa è stata, piuttosto, una limitazione di sovranità nazionale che ha relegato ai margini il Parlamento, mai chiamato a decidere se partecipare o meno al conflitto. È stata un gesto di rottura con la Costituzione che ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie di politica internazionale. È stata, infine, un atto di subalternità alla politica imperialista degli Usa e alla strategia di allargamento ad Est della Nato, verso le frontiere dell’ex Unione Sovietica.

A Genova contro la globalizzazione capitalistica e per i diritti dei popoli
È ora che la lotta di liberazione dei popoli, da quello palestinese a quello curdo, trovi finalmente una dimensione internazionale. Ci sono segnali che, da Seattle in poi, parlano di una ripresa del conflitto e indicano una possibile inversione di tendenza, un processo di crescita di soggettività sulle quali la politica anticapitalistica può e deve investire analisi, speranze, sentimenti, esperienze concrete di lotta. E allora Genova, dove a luglio il movimento contro la globalizzazione capitalistica si riunirà in occasione dell’incontro del G-8, può rappresentare l’occasione per dare nuovi contenuti di massa al sostegno della resistenza di curdi e palestinesi e di tutti i popoli in lotta per la propria liberazione.
Ci piace ricordare la scritta che accompagna la lotta silenziosa delle donne e degli uomini che sostengono, a costo della propria vita, lo sciopero della fame dei detenuti delle carceri speciali: una stella rossa e, sotto, «Hucreleri Yicagiz». “Avanti fino alla morte, distruggeremo tutte le celle”.