Il vaso di coccio libanese, di fronte alle pressioni americane e francesi rischia di andare di nuovo in frantumi e con lui l’intera area tra il Mediterraneo e l’Iraq. Il paese dei cedri, a poche ore dall’uccisione dell’editore Gibran Tueni, avvenuta lunedì a Beirut est, e mentre al Consiglio di sicurezza Usa e Francia chiedono «nuove pressioni» contro Damasco dopo che la discussa commissione di inchiesta Onu sull’uccisione di Hariri ha presentato un nuovo rapporto nel quale continua a puntare il dito contro Damasco, non è mai stato così diviso. Così sull’orlo del baratro come non succedeva dal lontano 1990, dai tempi degli accordi di Taif che fecero uscire il paese da quindici anni di guerra civile. Beirut est darà oggi l’ultimo saluto a Gibran Tueni nella basilica greco-ortodossa di San Giorgio ma, alla vigilia delle esequie, le forze pro-Usa e pro-Francia, maggioritarie nel governo e nel parlamento, hanno alzato il tiro, chiedendo al presidente del parlamento lo sciita, Nabih Berri, la convocazione straordinaria dell’Assemblea per discutere la fine anticipata del mandato del presidente (cristiano-maronita ma favorevole al mantenimento di buoni rapporti con Damasco) Emile Lahoud. Il colpo di mano, sostenuto da Parigi e da Washington, del premier Siniora (uomo di fiducia di Saad Hariri, figlio dell’ex premier ucciso il 14 febbraio scorso, e da mesi riparato in Arabia Saudita), del leader druso Jumblatt, dell’ultradestra maronita di Samir Geagea e di Gemayel, con la decisione di chiedere l’istituzione di un tribunale internazionale sul caso Hariri e un’estensione del mandato della Commissione di indagine Onu anche a tutti gli altri attentati succedutisi negli ultimi mesi, ha portato ad una spaccatura del governo e al congelamento della partecipazione all’esecutivo dei cinque ministri sciiti (Amal e Hezbollah) e di un ministro cristiano maronita Yacub Sarraf (ambiente) vicino al presidente Lahoud. Le motivazioni all’origine della presa di posizione dei settori «nazionali» anti-Usa sono state espresse ieri dal ministro sciita Mohammed Fneish (energia), maggior esponente di Hezbollah al governo: «Queste non sono dimissioni, ma una sospensione della nostra partecipazione al governo, in attesa di una decisione delle nostre direzioni politiche. Obiettiamo al principio dell’ internazionalizzazione di tutte le questioni libanesi e all’abbandono della sovranità libanese» aggiungendo poi con amarezza, «Stiamo tornando ai tempi del mandato francese». Una decisione definitiva sulla crisi potrebbe essere presa nelle prossime ore in un vertice tra il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah e quello di Amal, Nabih Berri. L’impressione generale è quella di trovarsi di fronte ad una specie di 18 aprile libanese con il tentativo Usa di rompere l’unità nazionale creatasi nel corso della liberazione del paese dall’occupazione israeliana attorno alla resistenza per isolare quest’ultima e arrivare ad un suo disarmo, seguito da quello della resistenza palestinese, in vista di una pace separata con lo stato ebraico, la distruzione dei campi profughi e la definitiva annessione ad Israele del Golan siriano.
Intanto anche la piazza di Beirut è divisa: la parte orientale della città, dove sono egemoni le destre cristiano maronite, è in lutto come il centro città ricostruito da Rafiq Hariri, mentre i quartieri periferici con i sobborghi sciiti e i campi palestinesi sembrano sull’orlo di mobilitarsi contro il nuovo protettorato americano sul Libano.
Parallelamente all’acuirsi della crisi libanese il giudice tedesco Detlev Mehlis, capo della commissione di inchieta Onu sull’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri (cento agenti e giuristi con la collaborazione dei servizi americani, francesi, israeliani e sauditi) ha presentato al Consiglio di sicurezza il suo secondo rapporto nel quale accusa la Siria di aver ostacolato l’inchiesta, di aver collaborato solo in parte, e con «lentezza» con le indagini, e nel quale ribadisce i suoi «sospetti» di un diretto coinvolgimento di Damasco nell’attentato all’ex premier libanese. Il fatto che i due principali testimoni di accusa, Zuheir Saddiq e Hossam Hossam sui quali si era fondato il primo rapporto, abbiano ritrattato parlando di pressioni nei loro confronti e di ingenti offerte di denaro da parte della famiglia Hariri perché accusassero i vertici siriani è stato liquidato in poche righe sostenendo che vi sarebbero comunque «altri testimoni», naturalmente segreti. Damasco ha subito reagito sostenendo di aver collaborato senza riserve con Mehlis, sino ad accettare che cinque esponenti dei suoi servizi segreti fossero interrogati a Vienna, e ha sfidato la commissione a presentare eventuali prove e concreti elementi di accusa in suo possesso.