S´intitola A un passo dalla forca il nuovo libro di Angelo Del Boca, lo studioso piemontese che da oltre mezzo secolo documenta atrocità e infamie dei nostri colonizzatori in Africa (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 290, euro 17,50). È anche questa la storia dell´occupazione italiana della Libia, vista però “dall´altra parte”. Dalla parte di un patriota libico, intransigente oppositore della nostra dominazione in Tripolitania. «Ho avuto la fortuna di consultare un documento eccezionale», spiega Del Boca. «Sono le Memorie di Mohamed Fekini, uomo colto e per decenni alto funzionario ottomano, il leader della tribù dei Rogebàn che nel 1911 armò migliaia di mugiahidin per difendere la sua terra dall´invasore. Per la prima volta uno storico italiano si può confrontare con i pensieri, i sentimenti, le strategie militari dell´avversario. È una fonte unica nel suo genere, non soltanto perché si estende sull´intero periodo della resistenza araba in Libia – dallo sbarco degli italiani nell´11 fino all´esodo degli oppositori in Algeria nel febbraio del ‘30 – ma anche perché conferma pregiudizi, intrighi e nefandezze dei nostri conquistatori, che certo non eccellono in comportamenti nobili». Tripoli bel suol d´orrore potrebbe essere il titolo della testimonianza araba, vista l´alta densità di violenze, ruberie, soprusi, inganni, promesse mancate che contraddistinsero il nostro governo in quella regione. Un campionario di atrocità, egualmente condiviso da Italia liberale e regime fascista. «Nell´esercizio della forca, Giolitti non fu da meno rispetto a Mussolini. Eppure nelle memorie di Fekini non c´è astio né rancore. Solo una grande amarezza per non aver potuto collaborare con il nostro paese».
Professor Del Boca, il ritratto degli italiani conquistatori non è tra i più entusiasmanti. Altro che brava gente: sleali, traditori, violenti. Fu così fin da principio?
«Sì, neppure l´esordio fu glorioso. Il primo governatore italiano s´affrettò a proclamare sentimenti quasi paternalistici verso le popolazioni locali, in realtà non rispettammo le loro donne e ci guardammo bene dallo spartire poteri e cariche. Questo nostro comportamento incoraggiò anche tra i libici più concilianti un´opposizione intransigente, fino alla battaglia di Sciara Sciat, che costò ai nostri soldati una dura disfatta».
La rappresaglia italiana fu spietata.
«Quattromila arabi furono uccisi in cinque giorni. Chi sopravvisse alla forca e alla fucilazione fu deportato nelle isole Tremiti o in altri penitenziari italiani come Ustica e Ponza. L´ordine fu impartito direttamente da Giolitti: oltre tremilaquattrocento arabi furono schiaffati nelle isole della morte. Ai reclusi fu inflitto un trattamento disumano, il colera fece il resto. Ancora oggi il loro calvario è vissuto in Libia con angoscia».
Uno statista liberale anticipò metodi di deportazione totalitari.
«Sì, nella ferocia contro i libici Giolitti introdusse modalità di rappresaglia che vedremo solo nelle file naziste. I telegrammi inviati al generale Carlo Caneva sono terrificanti: imbarcare, fucilare! Nella storia dell´occupazione libica, il grande politico piemontese fece davvero la parte peggiore».
Sarà superato soltanto da Pietro Badoglio.
«Badoglio fu il più crudele dei governatori italiani. Nominato nel 1928 da Mussolini, ordinò in Cirenaica la costruzione di tredici terrificanti campi di concentramento, che sarebbero diventati la tomba di quarantamila libici. È paradossale che Badoglio non abbia pagato per quelle sue colpe: mai un processo, solo tanti onori».
Per diversi decenni, nel dopoguerra, ha agito una sorta di rimozione.
«In realtà disponevamo d´una documentazione limitata, che era di parte italiana. Delle carte fasciste non ci fidavamo, mentre davamo credito alle fonti liberali. Le nostre ricostruzioni risentivano certamente dello spirito del dopoguerra, operavamo in una giovane repubblica nata dalla Resistenza. Oggi la documentazione è assai più completa e il nostro atteggiamento più disincantato. Non fummo soltanto assassini, ma anche conquistatori sleali».
La memoria del patriota libico Fakini documenta una strategia italiana affidata all´intrigo. Predicavamo pace e collaborazione, ma solo a parole.
«Sbarcammo in quelle terre persuasi d´essere razza superiore: consideravamo i libici gente subumana e non esitammo ad alimentare discordia, giocando con i conflitti religiosi tra arabi e berberi. Questo in sostanza lamenta il nobile Fakini, che a lungo coltiva l´illusione di collaborare con il nostro paese. Forte della sua trentennale esperienza di alto funzionario ottomano, contribuì non poco alla redazione dello Statuto, concesso nel 1919 dagli italiani. Ma anche questa fu una storia di promesse mancate».
Il primo ministro delle Colonie che denunziò nel ‘22 il comportamento dei governatori italiani in Libia fu Giovanni Amendola.
«Sì, egli criticò assai aspramente la politica dell´astuzia giocata dai nostri. Ma il suo messaggio arriva troppo tardi, quando i capi arabi avevano completamente perso fiducia nelle autorità italiane e si preparano allo scontro armato. Di lì a poco sarebbe arrivato alla guida del governo italiano Mussolini, che certo non migliorò le cose. La nostra filosofia coloniale accentuò aggressività e pregiudizio».
Tra il 1920 e il 1922 Fakini perde due figli in guerra, e anche qui ne traiamo una lezione di civiltà: da parte araba.
«Il primo figlio, Hassan, era un giovane dalle non comuni capacità diplomatiche. Per volontà del padre, aveva studiato all´Università di Torino, una scelta che la dice lunga sui sentimenti verso l´Italia. Alla sua morte fu commemorato in Parlamento da Gaetano Mosca, che ne aveva potuto apprezzare le qualità intellettuali. In Italia c´era ancora qualcuno che sapeva tessere le lodi di un arabo, ma era davvero una piccola minoranza».
Quando morì il secondo figlio, Hussein, Fakini ricevette invece “le lettere di condoglianze” – chiamiamole così – del colonnello Rodolfo Graziani: recapitate insieme alle bombe…
«Lo scambio epistolare tra il pacato leader arabo e il rozzo soldataccio italiano è una delle pagine più espressive della nostra storia coloniale in Libia: da una parte un alto sentimento dell´onore e della dignità, dall´altra volgarità e arroganza».
L´altro episodio simbolico è la testa mozza del nemico portata come trofeo a Badoglio.
«Sì, fu issata come un vessillo la testa mozza attribuita a Fekini. Ma era la testa di un altro. Ne parlarono anche i quotidiani italiani, annunciando la morte del patriota libico. Fekini si vide costretto a smentire la paternità del volto insanguinato. Una vicenda dai tratti paradossali e ridicoli».
Ci distinguemmo per efferatezza?
«No, non si può certo dire che i colonizzatori italiani furono più crudeli di inglesi e francesi. Anche gli avversari naturalmente facevano la loro parte. Però noi abbiamo commesso violenze senza apportare quel poco di benessere che hanno prodotto gli altri».
Da massimo studioso del colonialismo italiano, lei non ha mai esitato a denunciare le nostre atrocità. Questo le ha creato dei problemi?
«Molti, con alcune differenze. Se non mi hanno mai ferito le accuse dei fascisti – in fondo ne capivo le motivazioni, ero il demolitore dei loro ricordi nostalgici – mi diede molto fastidio la critica di Indro Montanelli, che negava l´uso dei gas in Etiopia. “Ma perché mi tratti da nemico dell´Italia”, gli chiesi una volta. “Se vai a studiare negli archivi, trovi quel che non immagini”. La contesa – questo è noto – si risolse a mio favore. Ma lì ho sofferto, non lo nego».