TRENTIN, UN CONTRATTO SOCIALE PIENO DI “SE” E “MA”

I commenti sulla Convenzione programmatica dei Ds, svoltasi a Milano tra il 4 e il 6 aprile, si sono appuntati in massima parte sulle polemiche interne al partito. Un gran parlare di schieramenti e una sostanziale indifferenza per le idee e per i programmi. D’altra parte, gli stessi protagonisti della tre giorni milanese debbono riconoscere che la responsabilità è in gran parte loro. Gli anatemi incrociati, i richiami all’unità e alla disciplina (contro la doppia appartenenza ai Ds e ad Aprile), le eterne dispute sul significato autentico del termine riformismo hanno tenuto banco. Ed è arduo pretendere dagli osservatori esterni un’attenzione ai «contenuti» maggiore di quella riservata loro dagli stessi addetti ai lavori.
A fare le spese di questa situazione è stato anche il «Manifesto programmatico» di Trentin, pure assunto da un ordine del giorno unitario votato all’unanimità dalla Convenzione. L’ex leader della Cgil se ne è avuto a male. Ha liquidato l’evento milanese come una occasione mancata, ha parlato di un dialogo tra sordi (e di «un dibattito sul nulla»), e ha moltiplicato gli appelli al confronto di merito. Nessuno gli ha risposto. Allora proviamo noi a raccogliere la sfida, tanto più che la materia per un confronto non manca, almeno a giudicare da quanto lo stesso Trentin ha scritto in un lungo articolo apparso sull’Unità del 1° aprile, nel quale sono sintetizzati alcuni passaggi cruciali del suo «Manifesto».
Il quadro del ragionamento è presto delineato. Si tratta, secondo Trentin, di definire i lineamenti di «un nuovo contratto sociale» in grado di promuovere «un corretto sistema di relazioni industriali» e di ridare al paese dinamismo e competitività. In questa prospettiva, appare strategica la battaglia per l’affermazione di «nuovi diritti», a cominciare dal diritto dei lavoratori alla formazione permanente. Detto questo, Trentin sviluppa un’aspra polemica non soltanto contro la destra berlusconiana e la parte «più conservatrice» del padronato, ma anche contro una vasta componente della sinistra politica e sindacale (tanto per esser chiari, le forze che oggi sostengono il referendum sull’art. 18) che egli giudica sorda al mutamento e affetta da «parzialità corporativa». Per avvalorare tale giudizio, Trentin cerca di dimostrare due tesi: (1) questa parte della sinistra avrebbe tradizionalmente sottovalutato l’importanza dei «diritti formali», considerandoli inefficaci ai fini della trasformazione delle condizioni reali delle classi lavoratrici; (2) questa parte della sinistra avrebbe altresì una nozione semplicistica della vicenda storica (tutt’altro che lineare) che ha visto l’affermarsi di nuovi diritti nel corso degli ultimi due secoli: tale semplicismo impedirebbe ai «conservatori di sinistra» di capire che «alcuni diritti finiscono per passare nel dimenticatoio» e li costringerebbe, appunto, ad attardarsi nella difesa corporativa di diritti che si sono ormai pienamente realizzati o, peggio, trasformati in privilegi.
Sempre che questa sintesi non faccia torto alle sue intenzioni, non c’è ragione di negare che Trentin coglie nel vero quando lamenta che il movimento operaio (in specie la sua componente comunista, alla quale egli fa evidentemente riferimento) ha spesso posto scarsa attenzione al «diritto formale», ritenendolo non solo ininfluente ai fini dell’evoluzione progressiva della società, ma anche ingannevole, perché garante di un eguagliamento astratto che lasciava sussistere e anzi proteggeva le reali disuguaglianze sociali ed economiche. L’unica perplessità concerne la nozione di «diritto formale» impiegata da Trentin. Di solito questa espressione è riferita ai diritti politici, alle libertà civili e alle garanzie giuridiche. Trentin invece fa riferimento anche al welfare, cioè all’insieme dei diritti sociali o «materiali», che non sembra proprio siano stati snobbati dal movimento operaio (al quale, semmai, andrebbe riconosciuto il merito storico di averli imposti alla controparte padronale).
Ma il cuore polemico dell’intervento di Trentin è contenuto nella sua seconda tesi, come prova l’esempio che egli sceglie per sostenerla: la sinistra conservatrice e corporativa è quella che si batte per l’estensione dell’art. 18 a tutto il lavoro dipendente, mostrando di non capire dove oggi si colloca la «nuova frontiera» della democrazia e della solidarietà, e assumendosi la responsabilità di «offrire nuove ragioni alla divisione dei lavoratori». Contro il referendum Trentin è inusitatamente duro. Lo considera «improduttivo, nel metodo e nel merito». E giunge ad accusare i suoi sostenitori di causare consapevolmente la spaccatura del mondo del lavoro. Peccato che a Milano egli abbia ricevuto l’applauso di D’Amato e le lodi di Billè, proprio per i suoi attacchi contro il referendum. Peccato anche che nemmeno Trentin risponda nel merito a quanto veniamo dicendo ormai da mesi, e cioè che la battaglia dei co.co.co e delle partite Iva sarebbe semmai rafforzata dalla vittoria del referendum, che avrebbe l’effetto di riaprire nel paese una nuova stagione di lotte in difesa del lavoro dipendente in tutte le sue forme. Ma, visto che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, evitiamo di soffermarci sul già noto e vediamo piuttosto come Trentin cerchi di ricostruire le ragioni, a suo dire errate, di chi (Rifondazione, Verdi, Fiom, sinistra Ds, ecc.) ha raccolto le firme per l’art. 18.
Perché, dunque, questi sciagurati «conservatori di sinistra» hanno intrapreso tale battaglia di retroguardia? Perché – risponde Trentin – non capiscono che le trasformazioni della società, dell’impresa e del mercato del lavoro hanno decretato l’anacronismo del diritto al reintegro tutelato dall’art. 18 e del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Di queste trasformazioni, belle o brutte che siano, occorre prendere atto, se non ci si vuole arruolare tra i nemici del progresso e della democrazia. Senonché questo argomento – simile alla biscia del demagogo di gramsciana memoria – si rivolta contro lo stesso Trentin.
Egli scrive che ci sono diritti che, lungi dall’essere sorpassati, «conservano una drammatica attualità». Perché? Da dove viene questa drammaticità? La risposta è semplice: proprio da quelle trasformazioni che, stando al ragionamento di Trentin, dovrebbero invece essere considerate alla stregua di decreti divini e assunte acriticamente come criteri di giudizio e di azione politica. Cos’è che oggi mette sotto attacco l’obbligo scolastico e il lavoro dei migranti e dei nuovi assunti? Da dove nasce la minaccia di schiavitù per tanti minori? E qual è la fonte del razzismo che permea così profondamente, anche nel nostro paese, le relazioni tra impresa e lavoro? Non chiamano forse in causa, tutti questi processi negatori di diritti fondamentali, quella concezione della società e quella pratica del conflitto di classe che si è convenuto di chiamare neo-liberismo, e che guarda ad ogni regola (primo tra tutte, il contratto nazionale di lavoro) come ad una «rigidità» non tollerabile? Ma non è forse questa stessa concezione e gestione della «modernità» il motore delle trasformazioni che hanno travolto garanzie e diritti fondamentali del lavoro e che oggi mirano a cancellare ogni residua sicurezza nel rapporto di lavoro dipendente?
Trentin dice che si tratta di sapere «immaginare nuovi diritti». Ha ragione. Ma perché questo impegno dovrebbe impedire la ricerca di forme, strumenti e garanzie giuridiche in grado di contrastare la vera emergenza sociale, più grave ancora dell’esclusione dal sapere su cui Trentin pone, a ragione, un forte accento? Questa emergenza si chiama insicurezza, precarietà, senso del pericolo. E se questi sentimenti dilaganti spingono masse crescenti a cercare capri espiatori e a invocare tutele autoritarie, la loro causa primaria è proprio quella aleatorietà dell’occupazione e del reddito che soltanto nuove regole, capaci di porre argini alla flessibilità voluta dal capitale, potrebbero ridurre.