«Tregua totale», ma Israele boccia la proposta di Hamas

Israele ieri sera ha respinto l’offerta di una tregua totale giunta dall’Anp, in sostanza dal movimento islamico Hamas, in cambio di una revoca da parte del governo Olmert del blocco dei fondi palestinesi – diverse centinaia di milioni di dollari derivanti da dazi doganali e Iva – che paralizza gran parte delle attività del governo palestinese e lascia senza stipendio decine di migliaia di dipendenti pubblici. Miri Eisen, la portavoce del premier Olmert, si è limitata a dire che i palestinesi devono prima di tutto dimostrare di saper mantenere la tregua a Gaza, raggiunta alla fine dello scorso anno, «prima che si possa prendere in considerazione la possibilità di una estensione (del cessate il fuoco)». È di fatto un nuovo «no» all’idea dell’apertura di un dialogo, sia pure a distanza, con Hamas che mai si era spinto sino a questo punto nell’ipotizzare una cessazione delle ostilità con Israele. La proposta di tregua infatti prevede la cessazione da parte palestinese del lancio di razzi, di qualsiasi operazione armata e di attacchi non solo in Israele, ma anche all’interno dei Territori occupati. E se l’offerta mirava anche creare un clima più costruttivo intorno al prossimo vertice tra Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen – dovrebbe tenersi domenica prossima – fonti israeliane hanno invece detto al quotidiano Ha’aretz che il primo ministro insisterà durante l’incontro con Abu Mazen affinché il futuro esecutivo palestinese di unità nazionale accetti esplicitamente le condizioni del Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) per la revoca dell’isolamento dell’Anp: il riconoscimento di Israele, fine della lotta armata e il rispetto degli accordi sottoscritti dall’Anp in passato. Solo in quel caso il premier darà il proprio benestare al nuovo governo, in fase di formazione in queste settimane. Il quotidiano palestinese Al-Ayyam ha aggiunto che Abu Mazen ribadirà a Olmert la sua opposizione a soluzioni transitorie del conflitto, come la nascita di uno Stato palestinese dalle frontiere «mobili». Un punto che metterà in chiaro anche con il segretario di stato Usa Rice, attesa in Medio Oriente entro la fine di marzo. Nei giorni scorsi fonti israeliane avevano escluso che i due leader possano affrontare nodi politici di rilievo, ma prenderanno in esame solo misure umanitarie per «alleviare» le difficoltà quotidiane dei circa 2,5 milioni di palestinesi della Cisgiordania sotto occupazione militare. Quelli che i palestinesi vogliono è la fine dell’embargo politico, economico e finanziario che Israele attua contro l’Anp, ma su questo punto non ci saranno novità.
E non basterà a far cambiare posizione ad Olmert un rapporto della Banca Mondiale in cui si chiede ai paesi donatori, alla Ue (ma anche a Israele) di inviare aiuti o di versare i fondi palestinesi tenuti bloccati non nelle casse della presidenza dell’Anp ma in quelle del ministero delle finanze. Nell’ultimo anno l’ufficio del presidente Abu Mazen ha ricevuto 265 milioni di dollari, in gran parte da paesi arabi e islamici, e più di recente 100 delle centinaia di milioni di dollari palestinesi che Israele tiene congelati. Il rapporto solleva dubbi sulla gestione dei fondi che, secondo molti palestinesi, verrebbero spesi per sostenere Fatah e i suoi militanti e non l’intera popolazione.
Il prossimo vertice tra Olmert e Abu Mazen in ogni caso non ferma i raid dell’esercito israeliano in Cisgiordania. Ieri 18 presunti militanti dell’Intifada sono stati catturati a Ramallah da reparti speciali israeliani. I soldati, circa 200, sono giunti verso le tre del mattino e si sono ritirati solo diverse ore dopo, dopo aver circondato la sede dell’intelligence militare palestinese dove si trovano i militanti. Tredici degli arrestati appartengono alle Brigate dei martiri di al-Aqsa (Fatah).
Ieri sera, intanto, il presidente israeliano Moshe Katsav si è salvato dall’impeachment: la commissione affari interni della Knesset ha votato contro il suo allontanamento dopo che un giudice aveva chiesto la sua incriminazione per le accuse di molestie sessuali rivolte da un’ex collaboratrice e da diverse altre donne: solo sette dei 25 membri della commissione hanno votato per le dimissioni.