Tre nodi

Quel che mi interessa nella proposta di Alberto Asor Rosa è che si crei una Camera di consultazione permanente della sinistra «radicale» – quella che ha espresso il famoso 13,5 per cento dei voti ma poi non si è più neppur consultata. E’ importante che essa e il suo settore più rilevante, Rifondazione Comunista, abbiano stabilito con Romano Prodi un accordo per battere la Casa delle libertà e per far fronte alla spinosa eredità che questa lascerà a un eventuale governo delle sinistre. Questo accordo è non solo necessario per togliere di mezzo Berlusconi, ma per assicurare che un governo delle sinistre non sarà perpetuamente in crisi. Nessuna delle due condizioni è finora garantita. Il vento che tira non è progressista e tantomeno riformatore o rivoluzionario. La vittoria di Bush dice che oggi l’appeal è quello di una destra dura, decisionista, ultraliberista, che risponde all’insicurezza con la guerra e considera un’anticaglia che le controversie internazionali siano affrontate con mezzi politici e discusse in un foro come l’Onu. E davanti al voto plebiscitario del 2 novembre, le sinistre europee sono colpite e disorientate. Da noi, Ds e Margherita esortano a indagarne i motivi, ed è giusto, ma aggiungono che si tratta di andare loro incontro, ed è sbagliato. Non tutto quello che esprimono le viscere di un paese arroventato da un leader bellicoso è da coltivare: si rischia di ripetere l’errore di considerare un passo avanti tutto quel che avviene apparentemente dal basso, come a suo tempo D’Alema considerò progressista il populismo della Lega. E dedurne che quel che occorre è conquistare un «centro», zona incerta né di destra né di sinistra ma un po’ di tutti e due, che vorrebbe dire ripetere l’errore dei governi Prodi, D’Alema, Amato del 1996-2001 e della campagna elettorale di Kerry. L’opposizione deve avere un progetto che agli stessi problemi non da’ le medesime risposte della destra: siamo un paese di interessi divisi, la Casa delle libertà ha ulteriormente approfondito la divisione, occorre dire a chi, su chi e a quale fine la Gad si rivolge, e da qui cercar di conquistare una maggioranza. Così del resto hanno fatto, da parte loro, Berlusconi e Bush. Se no si è perduto in partenza.

Ma precisare questo progetto non è semplice. Io credo che le divergenze fra le sinistre non dipendano dalla mancanza di buona volontà o da piccoli calcoli di partito. Da oltre venti anni la sinistra è in sofferenza, sotto l’assalto di una restaurazione che ne ha messo in luce le debolezze (nell’implosione dei socialismi reali e nel terremoto tecnologico e politico dell’occidente capitalistico), ha mutato strutture materiali e composizione delle classi, ha modificato la percezione delle possibilità e dei bisogni. Insomma, la sinistra paga aspramente una sconfitta storica. E’ inutile negarla. Non si spiega altrimenti né l’impaurita flessione moderata dei Ds, né la tormentosa ricerca di referenti in Rifondazione comunista. E per questo gli appelli emotivi e apparentemente di buon senso all’«uniamoci tutti», che partono ora di qua ora di là, concludono ben poco. Meglio ricordare che la stessa riscossa antifascista partì da un riesame della situazione che aveva di fronte, dei suoi paradigmi e dai punti sui quali doveva essere incardinata la repubblica da conquistare.

Oggi l’opposizione fatica e nell’analisi e nella proposta. Mi limito soltanto a tre esempi.

Primo. Nessuno dava per scontato il secondo mandato di Bush, mentre è stato un trionfo. Esso da’ la misura esatta del mutamento dei rapporti di forza e dell’idea di convivenza nel mondo che erano seguiti alla seconda guerra mondiale: nel 1946 si concluse che la guerra sarebbe stata bandita dalle controversie internazionali (che nessuno era così sciocco da ritenere finite) e che il governo delle contraddizioni e dei fini andava discusso da un direttorio che avrebbe rappresentato tutti i popoli e gli stati. Non si disse, ma era giudizio comune, che era anche il metodo per regolare il conflitto delle due grandi potenze rappresentanti due diverse idee di società. Caduta l’Urss, virato quel che restava dei socialismi reali verso forme di autoritarismo politico e capitalismo economico, la sinistra europea si è limitata all’inizio a sperare che la sola grande potenza rimasta, gli Stati Uniti, si desse il ruolo di una sorta di giudice di pace. E’ avvenuto il contrario e non soltanto dopo l’11 settembre, che ha offerto un sanguinoso pretesto in più: nel corso degli anni Novanta gli Stati Uniti hanno deciso che spettava a loro governare il pianeta al di qua o al di là di ogni assise internazionale di diritto, e a questo fine si sono riservati la decisione di imporre con la guerra il proprio modello. E affermando di battere il terrorismo, come prima frontiera, hanno spedito armi ed eserciti nel braciere del medioriente. Di fronte alla conferma popolare del 2 novembre, l’Europa è rimasta interdetta e la sinistra si divide fra una «accettazione moderata» della linea di Bush e una protesta che, anche quando mobilita le masse, non incide sui poteri se non riesce a cambiare i governi (Zapatero). I richiami alla carta dell’Onu e alla Costituzione italiana restano inoperanti: anche per la maggior parte delle sinistre la priorità del diritto stabilita nel 1946 e nel 1948 è più o meno tacitamente abbandonata. Ne deriva anche l’incertezza della fisionomia di una Europa appena nata e le spaccature al suo interno sulla collocazione internazionale.

Eppure proprio in questo mutamento degli equilibri mondiali l’Europa sarebbe in grado di avere un ruolo decisivo, costituendo una regione più grande per popolazione e bilancio degli Stati Uniti, se assumesse come strumenti politici l’interdizione della guerra e l’opera della diplomazia e della mediazione politica. Non si tratta di separarsi conflittualmente dagli Stati Uniti, ma di affermare una differenza dalla linea dell’attuale amministrazione americana, che fra l’altro non sarà eterna. Per prima cosa, oggi come oggi, rivendicando una funzione principe nel medioriente, con il quale confina, chiudendo sulla linea di Ginevra almeno il primo focolaio dei conflitti, quello fra Israele e Palestina.

Secondo problema. Non credo che a riemergere sia, come si usa dire, la questione del «lavoro» ma quella dei «diritti del lavoro». La prima passa ovviamente la mano alle imprese, sole in grado di offrire o ritirare occupazione, precaria o meno, in una globalizzazione ingovernata, salvo che dalle multinazionali, che permette loro di giocare su tutti i tavoli del pianeta il minor costo della manodopera. Anzi competizione e concorrenza quasi ve le costringono. I «diritti del lavoro» – bisognerà pur dirlo – non stanno nella logica dell’impresa, né del mercato, né della competizione, né della concorrenza. La piena occupazione non è una priorità, ma una variabile assoluta nella logica della libera circolazione dei capitali, sulla quale alla sfera politica, statuale o continentale, è impedito di mettere mano. Possibile che nessuna delle sinistre abbia finora il coraggio di dire che è su questa, e dunque sulle regole di Maastrischt e di Amsterdam, che occorre intervenire? E non limitarsi a dirlo ma ad elaborare un tragitto, delle alleanze, delle tappe? Vale quello che su queste colonne ha scritto Emiliano Brancaccio, e non è faccenda del solo sindacato, né di quello di un solo paese: esige che sia fatta pressione sulla struttura puramente monetaria sulla quale la Ue finora si tiene. E’ un progetto di lunga lena, cui nessuna lotta isolata, per quanto significativa – e tantomeno i sussulti gestuali di piccolissime minoranze – può far fronte. Tocca al complesso della sinistra radicale e non, in maggioranza, in minoranza e nei movimenti, ripensare gli assetti del capitalismo, le formule delle socialdemocrazie e quelle dei socialismi. E’ urgente, e non è affatto già dato nel senso comune delle società complesse. E’ da questo soltanto che possono uscire in forma non politicista e fragile i programmi con le loro interne mediazioni e tappe.

Per terzo, la crisi della politica, che si esprime nell’indifferenza, nel ritiro al privato e nel crescente astensionismo. C’è una situazione paradossale: le masse sembrano mobilitabili solo dalla destra più tradizionale, tipo le ultime elezioni americane, o all’opposto da un levarsi fortemente critico della politica da parte delle coscienze dei movimenti. Questi ultimi contraddicono la tendenza alla spoliticizzazione, ma contestano tutte le forme istituzionali, che sono poi i meccanismi della democrazia. Diamo a questo problema il suo vero nome: è una crisi della democrazia nell’occidente, cui da fa contraltare il ritorno, nei paesi terzi, del ripiegamento su soggettività arcaiche, come i fondamentalismi religiosi e le etnie. Contro le istituzioni vanno oggi sia la sottovalutazione dei poteri propria della generosità ma anche dell’incultura di molti movimenti, sia la seduzione che esercitano anche su soggetti smaliziati i vecchi «valori».

Non basta. Se la rappresentanza ha la febbre dovunque, è una ferita aperta sul versante del pensiero femminile più avanzato della fine del secolo scorso. Esso correttamente imputa al pensiero politico moderno l’assenza di un «contratto» fra i sessi, anzi ne rimuove il conflitto. Asor Rosa lamenta l’assenza dal dibattito delle femministe: ma non ricorda che a uno dei più importanti rivoluzionamenti del paradigma politico e antropologico degli anni recenti, le sinistre non hanno dato alcuna reale attenzione. Un abisso rimane fra le categorie del politico e la riflessione femminile, e produce uno stallo da una parte e dall’altra.

Mi sono limitata a ricordare tre nodi cui si connettono molti altri. Li sottopongo al dibattito solo per dire che ci sono fasi nelle quali analisi, elaborazione ed azione politica sono la stessa cosa. Uno spazio non solo per confrontarsi ma per lavorare assieme è essenziale.