Tre miliardi di poveri ai confini del pianeta

INCHIESTA

CHI E’ POVERO, chiede poco. «Star bene, per me, vuol dire non preoccuparsi dei figli, sapere che si sono sistemati. Avere una casa e bestiame e non svegliarsi di notte, quando il cane comincia ad abbaiare. Sapere che puoi vendere quello che produci. Sedere a chiacchierare con gli amici e con i vicini». A parlare così, nelle pagine di un recente rapporto della Banca Mondiale, non è una donna delle plaghe del Sahel, devastate dalla siccità: è un contadino di mezz’età, in Bulgaria, nel cuore di quell’Europa orientale, che è il nuovo grande serbatoio di povertà che gli anni ‘90 hanno scoperto al mondo. Poveri che si aggiungono a poveri, le grandi masse dell’Asia meridionale e dell’Africa a sud del Sahara, dove il contrario di povertà, nelle parole di una donna degli altipiani d’Etiopia, è ancora più scarno: «Sapere cosa ci porterà domani e se domani ci sarà da mangiare».
Gli anni ‘90 – il decennio che, nei paesi ricchi, ha visto spesso uno sviluppo economico turbinoso, che ha schiuso i nuovi orizzonti di Internet, dei telefonini, delle masse in Borsa – hanno appena scalfito il bilancio della povertà mondiale. Fra il 1987 e il 1998 il numero di persone che campano con meno di un dollaro al giorno è sceso dal 28 al 23 per cento della popolazione mondiale. Ma, siccome la popolazione è cresciuta, il numero di poveri è rimasto più o meno lo stesso: un miliardo 175 milioni di persone, 100 milioni in meno di dieci anni fa. Togliete l’Estremo Oriente (Cina compresa) e il «miracolo delle tigri»: nel resto del mondo, il numero di poveri è aumentato.
Questa statistica – la più classica – non dice tutto. Un dollaro al giorno è veramente poco. Ma siamo sicuri che due dollari (4.500 lire) sia davvero una soglia di sicurezza? Metà dell’umanità tira avanti, da un domani all’altro, con quel pugno di spiccioli: quasi tre miliardi di persone, 100 milioni in più di dieci anni fa. Un abitante su cinque in Europa orientale, uno su due nell’Estremo Oriente, quattro su cinque in India e nell’Africa nera. Come si vive con meno di due dollari al giorno? Un miliardo e mezzo di persone – un essere umano su quattro – non ha acqua potabile, altrettanti (non necessariamente gli stessi) non ha fogne. Metà degli abitanti dei paesi poveri è lontana chilometri, equivalenti ad anni luce, visti i trasporti, dal più vicino telefono. Quasi un miliardo di persone non sa leggere e scrivere. Rispetto ai Sette Grandi che si riuniranno a Genova, sembra un altro pianeta, se non fosse che la differenza è prima sociale che geografica: i Grandi hanno i loro poveri e, soprattutto, i paesi poveri hanno i loro ricchi. I paesi con i più alti tassi di squilibrio nei redditi sono paesi come l’Honduras, la Bolivia, lo Swaziland. La Banca mondiale registra che dove le disuguaglianze sono maggiori, è più difficile ridurre la povertà. I flussi degli aiuti internazionali, ma anche lo stesso benessere generato da un maggior sviluppo economico finiscono per sfiorare soltanto le grandi masse di poveri o per tracimare verso di loro solo molto lentamente.
La lotta alla povertà si completa all’interno dei singoli paesi, ma non può che iniziare fuori, dalle aree del mondo dove si trovano i capitali e il know how per utilizzarli. E’ una responsabilità che i paesi ricchi non respingono e che da anni hanno fatto propria. La globalizzazione, nei discorsi ufficiali, è anzitutto la diffusione del benessere. Ma, al tavolo della globalizzazione, accanto ai governi dei paesi ricchi e al secondo grande protagonista, le multinazionali capaci di esibire fatturati spesso più grandi del Pil di un paese di media grandezza, la sedia dei paesi poveri sembra un po’ più bassa e un po’ malsicura. E i conti del dare e dell’avere sono molto meno chiari di quello che vogliono apparire.
«Cancella il debito», cioè i 100 miliardi di dollari di debiti dei paesi poverissimi, come intonano Sonny Bono e Jovanotti è solo un capitolo della cattiva coscienza dei paesi ricchi. Un altro sono gli aiuti. Il loro ammontare complessivo è di gran lunga inferiore alle promesse, ma è soprattutto il meccanismo sotto accusa. Spesso, gli aiuti sono subordinati alla clausola che i soldi siano spesi dal paese povero comprando esclusivamente prodotti del paese donatore. Più che elemosina, è un sussidio alle proprie esportazioni. Ma il nodo più spinoso, quello che mette in gioco gli interessi più potenti, riguarda gli scambi commerciali. Globalizzazione vuol dire integrazione dell’economia mondiale. Ma se i paesi ricchi sono ansiosi di aprire i mercati dei paesi poveri ai loro prodotti, ai loro servizi, ai loro capitali, sono assai più cauti quando si tratta di ricambiare il favore, abbattendo le proprie tariffe doganali nei confronti dei prodotti agricoli o dei manufatti a bassa tecnologia dei paesi poveri.
Le statistiche dicono, del resto, che le economie dei paesi poveri sono, in realtà, più aperte di quelle dei paesi ricchi. Per questi ultimi, esportazioni e importazioni valgono circa il 20 per cento del prodotto interno. Nei paesi più poveri, questa percentuale tocca il 30 per cento. E mentre i paesi ricchi sono in attivo verso il resto del mondo – esportano,cioè, più di quanto importino – i paesi medi (Russia, Cina, Messico, Filippine) sono in pareggio. Chi è in rosso sono i paesi più poveri: Nigeria, Bangladesh, Etiopia. Le cifre in ballo sono briciole: l’interscambio di questi paesi vale un centesimo di quello che muovono i paesi ricchi. Ma per questi paesi che vivono di banane, caffè o di magliette sono le cifre che contano.