Con una maggioranza straordinaria la Camera ha votato il finanziamento delle missioni militari all’estero, quella afghana su tutte. La scena si ripeterà al Senato, dove però la destra cercherà di essere politicamente determinante per dimostrare che il centrosinistra da solo non può farcela. Ma qualche espediente si troverà – qualche uscita dall’aula da sommare a Pallaro e Follini – per evitare una riedizione del crack di febbraio. Su tutto aleggia un clima emergenziale che trasforma in delitto qualunque dissenso.
Al di là dei vincoli stretti che la stabilità politica impone alle coscienze parlamentari, ciò che colpisce è la schizofrenia di un voto che coincide con il sequestro di Daniele Mastrogiacomo: il finanziamento della missione Nato serve a sconfiggere l’orrore talebano con cui, dall’altra parte, cerchiamo di trattare per liberare l’inviato di Repubblica. Nemici in un caso, interlocutori nell’altro. Si rischia la stessa schizofrenia che ha devastato l’Iraq. Per uscirne bisognerebbe avere il coraggio di prendere di petto la questione di fondo: bisogna trattare con il nemico. Sempre, per arrivare a un compromesso. Ma questo è fuori portata se non ci si scontra con la potenza dominante, gli Usa, che continua a perseguire la guerra di distruzione.
Il governo italiano si gioca tutto pensando che un proprio ruolo militare in Afghanistan possa accreditargli un ruolo politico da giocare nella famosa conferenza internazionale di pace. Scommessa difficile e sempre a rischio (tra attentati, bombardamenti e sequestri). Il 20 marzo all’Onu D’Alema punterà tutto su questo. Vedremo quanti no americani sarà costretto a incassare e come ne uscirà la sua proposta. Sta di fatto che, mentre prosegue un’offensiva militare di cui non sappiamo nulla (Mastrogiacomo questo avrebbe voluto raccontarci, ma la sua voce è sotto sequestro), la possibile soluzione politica del nodo afghano rimane appesa al «contributo» diplomatico di chi l’osteggia apertamente (Usa) e di chi la vuole usare per i propri interessi regionali (dagli stati confinanti, Pakistan in testa, al governo di Kabul sotto assedio). Così anche gli interlocutori ipotizzati per la conferenza di pace, allontanano l’obiettivo invece di avvicinarlo.
Tutti sappiamo che entrare in guerra è disgraziatamente facile, mentre è molto più difficile uscirne. Ed è in questa difficoltà che si pone la bestemmia della trattativa con il nemico, per quanto orrendo esso sia. Perlomeno per arrivare a una tregua che dia a ciò che resta della società afghana la possibilità di una partecipazione politica al disegno del proprio futuro. E’ un varco strettissimo, ma a pensarci bene l’unico ragionevole, anche se la gran parte di quelli che hanno partecipato al plebiscito parlamentare di ieri lo considererano folle. Per il loro realismo ci potranno essere mille escamotage o maggioranze variabili a soccorrere la stabilità governativa, ma niente di tutto ciò muterà la sostanza delle cose. E di una precipitevole guerra.