«Guarda, sto qui davanti alla tv, assieme ad altri compagni e lo schermo è diviso in due: da un lato ci sono per strada duecento sostenitori di Pinochet che piangono e se la prendono con i giornalisti, dall’altra una piazza con migliaia di persone che ballano e cantano. Questa è l’immagine del mio Cile oggi». Jorge Coulon Arranaga ha la schiena appoggiata a una sedia nei locali della casa discografica di Santiago. È il leader storico degli Inti Illimani, gruppo musicale bandiera di libertà e di resistenza contro la dittatura che ha violentato il suo Paese. La morte di Pinochet è stata diffusa pochi minuti prima, sento Jorge al telefono. Dall’altra parte dell’Oceano le sue parole arrivano attraversate da voci concitate.
Jorge, qualcuno vi accuserà di essere crudeli se lasciate uscire sensi di gioia dal vostro cuore alla vigilia di un funerale…
«Sto attraversando un periodo riflessivo. Avrei preferito che non morisse mai, che fosse per sempre testimone del giudizio popolare. Ma non so biasimare chi celebra. Non c’è paragone con la crudeltà che Pinochet ha riversato sugli avversari, sulla gente. Non mi sento in animo di celebrare niente. Il lutto doveva essere celebrato quando è nato, non ora che è morto. Si chiude una fase storica, anche se ormai solo formalmente, ma credo che questa uscita di scena contribuirà a fare del Cile un paese più libero».
Sei stato testimone di questa fase atroce. Che pensieri ti porti in animo?
«È il momento di un bilancio esistenziale. Sono prossimo ai sessant’anni, più della metà li ho vissuti con il peso di questa persona onnipresente che decideva della nostra vita e della nostra morte. Insisto, non voglio celebrare la morte di nessuno. Pinochet era un cadavere politico da quando è tornato dalla Gran Bretagna, da quando è stato detenuto a Londra. Poi sono venuti a galla tutti gli scandali legati ai crimini ma soprattutto alle ruberie. Era divenuto scomodo anche per la destra. La mia paura è che la destra voglia infilare nella tomba di Pinochet anche le sue responsabilità».
Per il Cile è un fatto grande, nonostante questa bollitura politica…
«Guarda, la squadra di calcio cilena deve affrontare fra pochi giorni un match importante: se vinceremo dimenticheremo anche la morte di Pinochet. Qui la democrazia è abbastanza consolidata e lui non contava più niente…»
E se si riaccendesse una polemica sui funerali?
«Non stiamo attraversando un periodo politicamente delicato. Non credo che si faranno i funerali di Stato. Saranno esequie solenni con qualche militare attorno ma tutto qui. Del resto, perché dedicare funerali di Stato a uno che non è mai stato eletto da nessuno? Anzi, ha perso l’unica competizione che lo vedeva in gioco, il plebiscito dell’88».
Quanti anni sono passati e quanto sangue da allora, dall’assalto alla Moneda…
«Noi Inti Illimani eravamo partiti dal Cile prima del golpe. Eravamo in tournée in Europa. La notizia ci raggiunse a Roma. Da tempo avevamo il sospetto che stesse maturando una guerra civile. Tuttavia ci sorprese vedere Pinochet alla testa del golpe, lui che si era premurato di dichiararsi amico di Castro e di Allende. Ci facemmo l’idea di un militare codardo salito all’ultimo momento su un carro approntato da altri. Spinto, tra l’altro, più dalla moglie che dalle sue convinzioni. È stata la moglie il vero dittatore del Cile, lui è sempre stato un vigliacco che non si è mai assunto le sue responsabilità».
Qualcuno vi chiederà di mettere in piedi un concerto…
«Era già in programma da tempo. Suoneremo martedì al teatro di Santiago. Un concerto non celebrativo ma di riflessione. Il tema è questo: vediamo di non produrre nuovi Pinochet. Quel che è accaduto è anche in parte nostra responsabilità. Noi di sinistra siamo spesso un po’ arroganti intellettualmente e la nostra arroganza favorisce queste oscure risposte della storia».