Tra Oriente e Occidente

La grande stampa nazionale, i politici di quasi tutti gli schieramenti, i conduttori di talkshow e ora anche le rockstar: salvo pochissime eccezioni, nessuno in Italia si è lasciato sfuggire l’occasione di esibire il proprio zelo patriottico, riferito alla nuova nazionalità statunitense assunta all’indomani degli attentati dell’11 settembre. Surclassando i toni misurati della stessa stampa americana, quasi tutti i nostri quotidiani hanno preferito eccitare le passioni, evocare il clash of civilisations di Huntington, discorrere di un “attacco alla civiltà” (l’unica, evidentemente, degna di questo nome), esaltare i proclami del presidente americano sulla “prima guerra del XXI secolo”, invocare giri di vite di stampo maccartista contro chi si ostina a ricordare che l’attacco alle Twin Towers e al Pentagono non ha avuto luogo nel vuoto pneumatico ma sullo sfondo di un preciso contesto economico e politico.
Con buona pace dei fondamentalisti atlantici, è tuttavia insensato pretendere di ignorare lo stato del mondo nel quale è maturato l’attacco: da un lato l’immane divario di ricchezza e potenza tra una ristretta minoranza di privilegiati e l’enorme massa di dannati della terra; dall’altro la sordità delle grandi potenze nei confronti delle richieste economiche dei paesi più poveri e delle istanze politiche delle popolazioni oppresse. Piaccia o meno, di questa sordità gli Stati Uniti rappresentano, agli occhi di mezzo mondo, l’emblema, se non altro per il loro ruolo di massima superpotenza. Forse pochi sanno che metà del bilancio militare statunitense basterebbe a eliminare la fame del mondo, ma certo moltissimi intuiscono verità di questo genere.

Questo è un ragionamento sereno, che può dispiacere soltanto a chi per principio si rifiuta di riconoscere le ragioni degli altri. Non è tuttavia il solo ragionamento possibile. Un altro ordine di considerazioni concerne il tragico fallimento dei sistemi di intelligence statunitense, tanto sconvolgente da apparire sospetto. Anche se nessuno si azzarda a formularla, è evidente che diversi commentatori non escludono l’atroce ipotesi di una strategia intestina, di una complicità con i commando terroristi da parte di apparati “deviati” interni agli Stati Uniti o ad altri paesi occidentali.
Sorprende, a torto o a ragione, una nutrita serie di circostanze: la penetrazione simultanea degli autori degli attentati nei più sofisticati sistemi di sicurezza; il fatto che il “grande orecchio” di Echelon non abbia captato nulla di un piano criminale che deve aver coinvolto per un lungo periodo di preparazione (si parla di almeno sei mesi) svariate decine, forse centinaia di persone; la pervicace sottovalutazione di numerose informative concernenti un salto di qualità nella strategia terroristica anti-americana; il fatto che il numero delle vittime sia miracolosamente contenuto (5400 “dispersi” a fronte delle 50mila persone quotidianamente presenti nelle Twin Towers); la sconcertante rapidità con cui gli investigatori americani hanno individuato i presunti complici degli attentatori, mostrando di essere in realtà in possesso di mappe aggiornate delle organizzazioni terroristiche; la lunga inerzia della contraerea, che ha lasciato procedere indisturbata, a distanza di una ventina di minuti dal primo impatto, la corsa del secondo aereo verso Manhattan.
Fantasie? Sta di fatto che ad accreditarle sono le fonti più autorevoli, non soltanto il braccio destro di Carlos lo “sciacallo”, Anis Naccache, che si dice convinto che gli attacchi terroristici “siano il risultato di una manipolazione”. Se un esperto di questioni mediorientali come Mohammad Reza Djalili si limita prudentemente a ipotizzare che il mandante degli attentati abbia goduto dell'”appoggio dell’intelligence di alcuni paesi”, il segretario generale della Nato, Robertson, non esita a dichiarare che “gli inquirenti debbono ancora capire se l’attacco è arrivato dal cuore della nazione o se ad agire sia stato un commando esterno”.

Giulietto Chiesa ha cautamente parlato di “una cellula impazzita dello stesso meccanismo globale” e della necessità di cercare gli ideatori degli attentati “in direzioni che possono apparire insospettabili”. John Perry Barlow ha evocato la messinscena dell’incendio del Reichstag da parte dei nazisti e il “ruolo indiretto” giocato dalle “forze al potere in America” nei fatti dell’11 settembre. Ancor più in là è andato il New York Times che ha osservato come “la conoscenza dei codici cifrati, del luogo in cui si trovava il presidente e delle stesse procedure segrete lascia supporre che i terroristi abbiano una talpa nella Casa Bianca o informatori nei servizi segreti, Fbi, Faa o Cia”.
Sarebbe certamente temerario fondare castelli interpretativi su simili congetture, niente più di un mònito a diffidare di conclusioni precipitose. Ma non si può nemmeno trascurare quanto sottolineava Noam Chomsky all’indomani dell’attacco, e cioè che esso “è un regalo all’estrema destra sciovinista”. Tutto sembra oggi nuovamente possibile. Lo scudo stellare (benché palesemente inutile contro attacchi portati da aerei di linea in mano a dirottatori); la minaccia nucleare; la schedatura di massa di migranti e stranieri (e, perché no, anche di avversari politici); la riduzione delle libertà civili e della privacy; la rilegittimazione dell'”omicidio legale” da parte della Cia; l’ipotesi di un attacco all’Afghanistan, non solo sede di un regime fondamentalista (a suo tempo sostenuto dagli Usa contro l’Unione Sovietica) ma anche naturale crocevia verso immensi giacimenti petroliferi; il rilancio di un’economia in recessione, le cui sorti potrebbero essere salvate da un nuovo ciclo di “keynesismo militare” (Raskin) che, oltre a fungere da volano per il sistema militare-industriale statunitense (e occidentale), avrebbe anche il vantaggio di giustificare ulteriori riduzioni del costo del lavoro nel sacro nome della difesa nazionale, e dunque di rilegittimare l’opzione neoliberista dinanzi a un’opinione pubblica sempre più perplessa; persino la distruzione fisica dei palestinesi e la drastica risoluzione della questione cipriota a tutto vantaggio del fedelissimo alleato turco.

Intervistato all’indomani degli attentati, Suheil al Natour, leader del Fronte democratico per la liberazione della Palestina, non si è limitato a dichiarare che “atti di questo tipo possono avere origini ben diverse da quelle del Medioriente”, ha altresì sottolineato che “una guerra devastante sarebbe una manna per l’economia americana in difficoltà”. Ancor più esplicitamente, sul manifesto del 19 settembre, Augusto Graziani ha rilevato che la ripresa in grande stile della guerra determinerebbe una “ripresa generale dell’economia”. Graziani fa riferimento anche al quadro “geopolitico” complessivo nel quale si collocherebbe un intervento americano in Afghanistan. Conviene soffermarsi su questo tema, trascurato da quanti, anche nella sinistra “critica”, guardano al tema della guerra con sconcertante superficialità.
Sottolinea Graziani come Bush figlio si mostri fermamente intenzionato a procedere lungo la via segnata, con la guerra del Golfo, da Bush padre, grande regista della politica internazionale della Casa Bianca. Se si considera che nella zona in cui si combatté il conflitto contro l’Iraq stazionano ancora contingenti armati statunitensi, l’operazione “giustizia infinita” non segna l’inizio di una nuova guerra, ma la continuazione coerente della guerra del Golfo, proseguita nello scorso decennio in area balcanica. In questo quadro, una eventuale occupazione militare dell’Afghanistan sancirebbe una rivoluzione nella carta geografica mondiale. “Il collegamento con la presenza militare nei Balcani seguita alla guerra del Kosovo – scrive Graziani – creerebbe una cintura completa, una nuova frontiera fra oriente e occidente”.
Questo è, in effetti, il solo quadro che consenta di comprendere la situazione odierna. Sullo sfondo della guerra santa americana contro il “terrorismo” si intravede la questione cruciale del nuovo bipolarismo che viene profilandosi all’orizzonte. Da tempo gli analisti del Pentagono pronosticano che al più tardi nel 2017 la Cina raggiungerà una potenza economica e militare pari a quella statunitense, e sarebbe insensato immaginare che gli Stati Uniti rinuncino a sfruttare l’attuale vantaggio, occupando aree strategiche e imponendo alle “potenze antagoniste” (Brzezinski) e agli Stati “troppo indipendenti” (Kissinger) una accelerazione della corsa al riarmo analoga a quella che portò l’Urss alla catastrofe economica. “Autodifesa preventiva”: pendant, in chiave imperialistica, dell’offensiva interna lanciata dai carri armati di Sharon.
Certo, la caduta del Muro di Berlino è stata un evento storico di importanza epocale, che ha segnato la fine del bipolarismo ereditato da Yalta. Ma – con buona pace delle mitologie “imperiali” – vale la pena di chiedersi se la rapidità dei mutamenti non sia a tal punto aumentata da decretare già, a distanza di un decennio, il tramonto di quell’epoca e l’alba di una fase nuova, piena di incognite. A proiettare un’ombra minacciosa sul nuovo secolo non è un mitico Impero ma forse, molto più prosaicamente, una nuova inquietante sfida tra Oriente e Occidente.