Situarsi sul fragilissimo ponte sospeso che lega filosofia ed economia costituisce un atto temerario e quindi di per sé ammirevole. Dopo gli stimolanti contributi di Zanini per Boringhieri e di Guala per il Mulino, il libro di Laura Bazzicalupo (Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza 2006, pp. 167, 20 euro) rappresenta la prova ulteriore di un ritrovato interesse per le questioni sul metodo – e più in generale sul senso e sull’oggetto – della teoria economica, vale a dire della forma tuttora dominante del pensabile sociale e politico. L’ascesa alla ribalta delle questioni di metodo viene solitamente interpretata come un sintomo di malessere, di crisi delle strutture consolidate. Per questo essa merita un approfondimento, anche qualora si manifesti lungo le vie periferiche anziché centrali del pensiero contemporaneo. E’ tale il caso di Bazzicalupo, che sceglie di gettare sulle fondamenta del discorso economico lo sguardo obliquo e distante di Foucault e della biopolitica.
Nella prefazione al libro, Roberto Esposito si sofferma sulla provocazione epistemologica che questo rinvio implica. Il principio foucaultiano secondo cui lo sguardo del filosofo deve includere se stesso nell’analisi determina uno scatenamento nell’ordine della successione logica. La sequenza discorsiva si spezza, diventa discontinua, e si presenta deliberatamente auto-contraddittoria. Su ogni acquisizione infatti si ritorna, ogni risultato è messo in discussione. Potremmo dire, in termini formali, che i dati, una volta fissati, restano tali giusto il tempo necessario a riproporsi come incognite. E non c’è sintesi che tenga: la teoria risulta condannata all’aporia interna, inevitabilmente e volutamente. Siamo insomma fuori tanto dalla dialettica quanto dall’analitica. Siamo fuori sia dal marxismo sia dal liberalismo. Qualcuno lo definirebbe un ormai vecchio e inconcludente salto nel buio. Eppure la tesi centrale del libro è suggestiva: essa consiste nell’idea che il paradigma biopolitico dia ragione del modo in cui l’economia sempre più condiziona le nostre vite. L’economia esprimerebbe cioè nella forma più intrinseca la connessione tra politica e vita biologica.
E’ questo indubbiamente un mutamento concettuale, non solo in rapporto alla boutade negriana di una potenza della vita sempre eccedente e sovversiva rispetto al comando politico, ma anche in relazione alla concezione alternativa della biopolitica quale potere mortifero, perennemente sovrano sulla vita. Bazzicalupo pone infatti tra politica e vita la mediazione del discorso economico, ed attribuisce ad essa un compito decisivo: non il semplice disvelamento ma la continua produzione di verità. Secondo l’autrice tutti gli approcci teorici all’economia presterebbero il fianco alle critiche di Schopenauer e di Nietzsche, e in particolare alle loro riflessioni sul carattere corporeo, costitutivamente irrazionale, della volontà. Quella del discorso economico sembrerebbe pertanto un’impresa impossibile, consistente nella pretesa di rinchiudere in uno schema razionale precostituito una volontà soggettiva irriducibilmente dominata dalla spinta convulsa dei bisogni e dei desideri. In realtà, aggiunge l’autrice, ad uno sguardo più approfondito si scopre che la questione è più complessa: l’economia può infatti rivelarsi un efficace criterio ordinativo per questa volontà umana così sfuggente e in continuo movimento. Dal discorso economico scaturiscono cioè quei dispositivi di sapere, quelle forme di veridizione finalizzate non semplicemente ad analizzare quanto piuttosto a strutturare i soggetti, a legittimare a posteriori i loro comportamenti e in ultima analisi a forgiarli. Secondo l’autrice il potere di ogni economia sembra vertere su una teoria dei bisogni tesa a sancire l’incondizionatezza della vita, l’impossibilità di influenzarla. Da questa radice naturalistica la lettura economica dell’esistenza ricaverebbe un’aura di necessità, un vincolo, un elemento di piena legittimazione e quindi di determinazione. Per portare alla luce questo sotterraneo ruolo produttivo dell’economica occorre allora riconoscere che anche le percezioni più elementari – fame, attrazione sessuale, paura, sofferenza – sono in realtà mediate da rappresentazioni psico-culturali. Ed è proprio nello iato tra la sensazione organica e la mediazione culturale che, secondo Bazzicalupo, si innesterebbero i sistemi di sapere e di potere. Ossia l’economia, la teoria economica come dispositivo biopolitico.
Lo spunto dell’autrice è significativo. Conferme della sua pregnanza si ritrovano ogni giorno sulle pagine dei quotidiani, vale a dire all’interno del discorso tramite il quale l’economia dominante interpreta e produce la vita. Si pensi alle modalità in cui si invoca la disciplina sui luoghi di lavoro o il rispetto dei vincoli di bilancio pubblico. L’esortazione è sempre accompagnata da una miscela ben collaudata di promesse e di minacce: la crescita e il benessere da un lato, la fuga di capitali, la crisi finanziaria e il declino economico dall’altro. In più circostanze abbiamo evidenziato la dipendenza di tali argomentazioni da strutture assiomatico-deduttive gravemente compromesse. Ma la loro efficacia pare ormai sempre meno legata a questioni di fondatezza logica. Esse piuttosto si affermano in base alla capacità di stimolare l’immaginario dei destinatari, di evocare a seconda dei casi prospettive economiche positive o negative, vale a dire floride o funeste modalità future di riproduzione dell’esistenza umana. In effetti qualcuno aveva già da tempo accennato all’ideologia quale produttrice anziché disvelatrice di verità. Nulla tuttavia impedisce di esprimere il concetto in termini nuovi, individuando un chiaro flavour biopolitico nella teoria economica dominante.
Eppure da questa promettente intuizione Bazzicalupo non sembra ricavare sviluppi convincenti. La sensazione, in proposito, è che proprio le radici foucaultiane dell’indagine segnino un destino di vuota indeterminatezza, e forse uno spreco intellettuale. L’autrice correttamente individua e critica la tendenza del filosofo francese ad associare l’economico alle mere strategie governative. A questo acuto spunto critico non sembra tuttavia far seguito una riflessione costruttiva: la questione delle reali determinanti del potere – che riproduce e continuamente affina il linguaggio economico – rimane sospesa per aria. I riferimenti al movente del profitto sono in tal senso saltuari, talmente sfumati ed incerti da indurre Bazzicalupo a mettere implicitamente sul medesimo piano rivoluzione e restaurazione, liberazione e liberalizzazione, welfare e workfare, Beveridge e Blair. Quale la giustificazione per una tale mescola degli opposti? L’idea è che il potere si manifesta non solo nella repressione ma anche nella promozione della vita. Una riflessione senz’altro condivisibile, ma che certo non autorizza ad omogeneizzare la Storia. Un simile esito del libro probabilmente scaturisce dall’assenza, tipicamente foucaultiana, di una precisa struttura capace di esplicitare le condizioni logiche di sostenibilità/insostenibilità del sistema vigente, indispensabili per riconoscere i tratti distintivi delle diverse fasi storiche (vale a dire, per citare un esempio, il carattere dirompente del Sessantotto e quello restauratore degli anni Ottanta). Infatti, dopo essersi cimentata in una dubbia ricostruzione della storia del pensiero economico in chiave biopolitica, Bazzicalupo giunge alla conclusione che i capisaldi della teorizzazione otto-novecentesca siano tutti da respingere, essendo irrimediabilmente viziati dal tentativo di ingabbiare la potenza del bios in un rigido schema razionalista e di organizzare per questa via le soggettività e i consensi. L’autrice auspica quindi l’emergere di un’alternativa al razionalismo delle teorie dominanti. Essa invoca la fioritura di un pensiero dell’economia più complesso, più realista di quanto non sia quello dei tecnici-esperti dell’economia. Ma per chiunque abbia dimestichezza con l’incedere lento e travagliato della teoria economica e della sua critica, un così generico rinvio sembra destinato ad assumere i tratti inconfondibili del deja vu e del preludio a un drammatico stallo. Il medesimo stallo nel quale Foucault amava crogiolarsi e distinguersi – specialmente dai marxisti – ma che pare invece vanificare i tentativi di progressione dei suoi pur generosi epigoni.
E’ concepibile un’alternativa? E’ possibile cioè sottrarre la critica biopolitica della teoria economica da un infruttuoso avvitamento? Non è facile offrire una immediata risposta a questa delicata questione, soprattutto nella misura in cui si pretenda di sciogliere l’arcano attraverso un delicatissimo incrocio tra metodologie finora ritenute antagoniste. Ad ogni modo è questa la strada che proveremo qui di seguito a indicare. Abbiamo detto che la promettente intuizione di Bazzicalupo consiste nel rintracciare i dispositivi di persuasione dell’economico dietro un’apparente aura di necessità, vale a dire esattamente nel loro opposto. E’ chiaro cioè che se la teoria economica dei bisogni stabilisce che una determinata istanza è necessaria, ossia naturale, il risultato è che essa sembrerà del tutto refrattaria al condizionamento politico, nel senso che mancherebbero i margini per l’esercizio del potere. Ora, è in effetti vero che nella teoria marginalista dominante il consumatore è ritenuto sovrano: sul piano formale ciò si traduce nell’assunto che le preferenze siano esogene, cioè date e quindi non manipolabili. Si tratta effettivamente di un’ipotesi decisiva per la coerenza logica e le finalità ideologiche di quell’impianto teorico, ma che può essere del tutto accantonata in un diverso contesto. Tuttavia, a causa di una fuorviante interpretazione dell’oggettivismo dei classici e del concetto di sussistenza storicamente determinata, l’autrice non si avvede di questa possibilità. Occorre dunque porla in luce. Uno spunto, in questo senso, è offerto dalle versioni moderne della critica marxiana dell’economia politica ispirate a Sraffa e alla teoria del circuito monetario (mi permetto di rinviare al mio “Fuori dalla torre d’avorio”, in Cesaratto e Realfonzo, Rive Gauche.
Critica della politica economica, manifestolibri 2006). Un aspetto cruciale di questa impostazione è che la sua struttura logica si limita a descrivere esclusivamente relazioni obbligate tra merci e moneta, mentre risulta muta riguardo a tutto ciò che investe il bios, vale a dire principalmente i bisogni e gli sforzi produttivi dei lavoratori. E’ questo, si badi, un silenzio ben ponderato. Per la moderna critica della teoria economica, infatti, le variabili direttamente associate agli impulsi vitali non possono mai esser considerate date una volta per tutte. In termini logico-formali, ciò significa che il lato del sistema che descrive la vita deve risultare “aperto”: ossia, i coefficienti di lavoro e di domanda debbono esser definiti in termini di campi di variazione e non di valori puntuali. Tutto questo però non implica che il concetto di necessità viene meno, ma soltanto che subisce una traslazione. Anziché situarsi nell’ambito vitale dei bisogni e della produttività del lavoro, lo stato di necessità si colloca infatti nelle condizioni di riproduzione del sistema capitalistico, vale a dire nella esigenza impersonale di assicurare la riproduzione di un saggio di profitto compatibile con gli assetti di potere che derivano dai rapporti tra capitale industriale e finanziario da un lato, e capitale e lavoro dall’altro. La vera necessità del sistema è dunque rintracciabile nella riproduzione del profitto, la quale si posiziona alla base del ragionamento. La questione del bios, delle pulsioni e dei relativi bisogni, si situa invece più in superficie, non certo nel senso della loro ineluttabile sudditanza al potere ma nemmeno in quello del tutto rovesciato e inverosimile di una loro irriducibilità ad esso. Nell’ambito storicamente determinato del capitalismo, infatti, quello tra il potere e la vita è uno scontro circolare tra una impersonale necessità e una soggettiva vitalità, ossia tra la necessità di riprodurre il profitto – e di costituire anche un linguaggio economico conforme a tale necessità – e la volontà di sottrarsi alle determinazioni della vita che siano funzionali a quello scopo, sia sul versante del lavoro che su quello dei bisogni.
Dalla moderna critica della teoria economica è dunque possibile estrarre una struttura logica in grado di indagare sulle condizioni e sui possibili esiti dello scontro tra potere e vita. Questa indagine verte sulla traslazione del concetto di “necessità” dalla sede delle istanze vitali al vero luogo ad essa deputato: il luogo reale della razionalità, che è quello impersonale, meccanico, anti-vitale, della continua rigenerazione del profitto e quindi della sostenibilità del sistema. Si tratta di una struttura che non dipende da una teoria razionalista dei bisogni, e che riesce per giunta a dar conto dell’esistenza e della estrema pervasività culturale di quest’ultima. Tale struttura pone cioè in luce le forze impersonali sottese al linguaggio, e consente pertanto di evitare l’evanescente lettura del potere nella quale i successori di Foucault sembrano il più delle volte arenarsi. Non si può escludere che proprio su queste basi possa riaprirsi uno spazio di discussione tra la critica economica e la critica filosofica, e in particolare tra le versioni più moderne e avanzate del marxismo – quelle ispirate a Sraffa e al circuito monetario – e le versioni non apologetiche della ricerca biopolitica. Si tratta di un sentiero di ricerca impervio, che sarebbe molto ingenuo definire “economicista” ma che senz’altro richiederebbe l’accettazione da parte dei biopolitici di almeno un punto fermo, di una logica delle cose, di un modo di produzione operante sul potere e sul suo linguaggio. Un’ipotesi di lavoro che in effetti mal si concilia con l’intera eredità foucaultiana, ma che forse, esattamente per questo, potrebbe aiutarci ad uscire da una lunghissima notte.