Tra la Russia e il Messico, una fascia di Paesi sull’orlo del tracollo.

* Consigliere del Carnegie Endowment for International Peace

Pubblichiamo questo interessante articolo, apparso sul Corriere della Sera del 27 luglio u.s. e lo facciamo con una premessa:
la fonte di questa interessante documentazione è la Foreing Policy, una rivista statunitense di ispirazione neoconservatrice legata a Samuel Hutington, teorico dello scontro tra le civiltà.
Questo dato spiega come, ovviamente, noi comunisti non possiamo condividere il metro di valori che vi è inserito, ma tuttavia le informazioni che vi compaiono mantengono il loro interesse.

La Redazione de l’ernesto online – 2 agosto 2005
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Disordine globale Un tempo i leader politici si preoccupavano degli Stati che accumulavano potere, oggi degli Stati in cui il potere è assente. Radiografia di quella parte del pianeta che si dissolve in conflitti e disuguaglianze

Atlante delle periferie che incendiano il mondo

Paesi che esportano armi, droga, terrorismo

La minaccia odierna per l’Occidente non è tanto rappresentata dagli Stati aggressivi quanto da quelli in via di dissoluzione. È questa la conclusione della U.S. National Security Strategy del 2002. Per un Paese come l’America la cui politica estera nel ventesimo secolo è stata dominata dalla lotta contro Stati potenti quali la Germania, il Giappone e l’Unione Sovietica, si tratta di un tipo di valutazione che colpisce. E gli Usa non sono i soli a diagnosticare il problema in questi termini. Il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha ammonito che ignorare i cosiddetti failed states, gli Stati falliti, crea problemi che a volte si ritorcono su di noi. Il presidente francese Chirac ha parlato della «minaccia che gli Stati falliti costituiscono per l’equilibrio mondiale». Un tempo i leader del mondo si preoccupavano di chi accumulava potere, oggi si preoccupano della sua assenza.

L’Odissea degli Stati falliti è stata significativa: essi sono passati dalla periferia al centro della politica globale. Durante la Guerra Fredda la dissoluzione degli Stati era infatti vista attraverso il prisma del conflitto fra superpotenze, e raramente veniva indicata come un pericolo in sé e per sé. Negli anni 90 i failed states sono stati per lo più di competenza degli attivisti delle organizzazioni umanitarie e dei diritti umani, anche se hanno cominciato a monopolizzare l’attenzione dell’unica superpotenza mondiale, che ha condotto interventi in Somalia, Haiti, Bosnia e Kosovo. Oggi sembra che tutti se ne preoccupino. Le pericolose esportazioni degli Stati falliti — che siano terroristi internazionali, signori della droga o arsenali di armi — sono oggetto di infiniti timori e discussioni. Nonostante tutta questa nuova attenzione, continua però a esserci incertezza circa la definizione e la dimensione del problema. Come riconoscere uno Stato fallito? Un governo che ha perso il controllo del suo territorio o il monopolio dell’uso legittimo della forza si è ovviamente guadagnato una simile etichetta. Ma possono anche esistere attributi del fallimento più sottili. Ad alcuni regimi, per esempio, manca l’autorità per prendere decisioni collettive o la capacità di fornire servizi pubblici. In altri Paesi, la popolazione si affida interamente al mercato nero, non paga le tasse o è impegnata nella disobbedienza civile su larga scala.

Per presentare un quadro preciso delle dimensioni e delle implicazioni del problema, il Fondo per la Pace, un’organizzazione di ricerca indipendente, e Foreign Policy hanno stilato una classifica globale di Stati deboli e in via di dissoluzione. Servendoci di dodici indicatori sociali, economici, politici e militari, abbiamo classificato sessanta Stati in base alla loro vulnerabilità rispetto a violenti conflitti interni. L’elenco che ne è sortito fornisce un profilo del nuovo disordine mondiale del XXI secolo e dimostra come il problema degli Stati deboli e in via di dissoluzione sia molto più serio di quanto comunemente si pensi. Circa due miliardi di persone vivono in Stati insicuri, con livelli di vulnerabilità variabili rispetto al conflitto civile diffuso.
L’instabilità diagnosticata dall’elenco ha molte facce. Nella Repubblica democratica del Congo o in Somalia, la dissoluzione dello Stato è evidente da anni, e si manifesta in conflitti armati, carestie, epidemie e flussi di rifugiati. In altri casi, l’instabilità è più sfuggente. Spesso gli elementi corrosivi non hanno ancora dato luogo a ostilità aperte, e la pressione può essere in ebollizione appena sotto la superficie.

Il conflitto può concentrarsi in territori locali che puntano all’autonomia o alla secessione (come nelle Filippine o in Russia). In altri Paesi, l’instabilità assume la forma di scontri episodici, narcomafie o signori della guerra che dominano ampie fasce del territorio (come in Afghanistan, Colombia e Somalia). Il crollo dello Stato può essere improvviso; spesso, però, la sua fine è segnata da un lento e costante deteriorarsi delle istituzioni sociali e politiche (Zimbabwe e Guinea sono buoni esempi). Alcuni Paesi che emergono da un conflitto possono essere in via di guarigione ma a rischio di ricaduta (Sierra Leone e Angola). La Banca Mondiale ha rilevato che nell’arco di cinque anni metà dei Paesi che emergono da agitazioni civili ricadono ciclicamente nel conflitto (Haiti e Liberia).

I dieci Stati più a rischio presenti in elenco hanno già dato chiari segni di dissoluzione. La Costa d’Avorio, un Paese diviso in due dalla guerra civile, è il più vulnerabile rispetto alla disintegrazione; crollerebbe forse completamente se le forze di peacekeeping delle Nazioni Unite si ritirassero. Seguono la Repubblica democratica del Congo, il Sudan, l’Iraq, la Somalia, la Sierra Leone, il Ciad, lo Yemen, la Liberia e Haiti. L’elenco comprende altri Paesi la cui instabilità è meno riconosciuta a livello generale, fra cui il Bangladesh (17° posto), il Guatemala (31°), l’Egitto (38°), l’Arabia Saudita (45°) e la Russia (49°).

Gli Stati deboli sono prevalentemente in Africa, ma se ne trovano anche in Asia, in Europa orientale, in America Latina e in Medio Oriente. Gli esperti hanno parlato per anni di «arco dell’instabilità», un’espressione entrata nell’uso negli anni 70 con riferimento a una «Mezzaluna Islamica» che si estende dall’Afghanistan ai vari territori della parte meridionale dell’ex Unione Sovietica. Il nostro studio ipotizza che questo concetto è troppo limitato. La geografia degli Stati deboli rivela un’espansione territoriale che va da Mosca a Città del Messico, ben più ampia di quanto un «arco» faccia pensare e non limitata al mondo islamico.

L’elenco non fornisce alcuna risposta facile a quanti pensano di intervenire per riportare in equilibrio i Paesi in posizione precaria. Le elezioni sono considerate quasi universalmente utili nella riduzione del conflitto. Se tuttavia vengono manipolate, condotte mentre lo scontro è in atto, o denotano bassa affluenza, possono rivelarsi inutili o persino dannose per la stabilità. La democrazia elettorale sembra non aver avuto che un impatto modesto sulla stabilità di Stati come l’Iraq, il Ruanda, il Kenya, il Venezuela, la Nigeria e l’Indonesia.

Quali sono i segnali di preallarme più indicativi della dissoluzione di uno Stato? Dei dodici indicatori di cui ci siamo serviti, due figurano coerentemente ai primi posti. Lo sviluppo diseguale è elevato in quasi tutti gli Stati dell’elenco, indicando come l’ineguaglianza all’interno dei singoli Stati — e non soltanto la povertà — aumenti l’instabilità. Figura in primo piano anche la criminalizzazione o delegittimazione dello Stato, che si manifesta quando le istituzioni statali sono considerate corrotte, illegali o inefficienti. Di fronte a questa condizione, la gente spesso trasferisce la propria lealtà su altri leader — partiti di opposizione, signori della guerra, nazionalisti, clero o forze ribelli. Presenti nei Paesi più a rischio sono anche i fattori demografici, soprattutto la pressione sulla popolazione provocata dai rifugiati, i profughi interni, e il degrado ambientale, così come le continue violazioni dei diritti umani.

Riconoscere i segnali della dissoluzione di uno Stato è più facile che mettere a punto le soluzioni, ma individuare dove un crollo è più probabile è un primo passo necessario.