Tra la Francia e l’Argentina

Scrive Le Monde, com­mentando il supposto impoverimento delle classi medie francesi, che nei decenni recenti in Francia i lavoratori indipendenti, co­me artigiani e commercianti, sono molto diminuiti, relati­vamente a quelli dipendenti. Proprio l’opposto di ciò che è accaduto in Italia nello stes­so periodo. L’esperienza francese collima con quella degli altri paesi sviluppati; mentre quella nostra si trova a coincidere con quella di paesi eternamente in via di sviluppo, come l’Argentina.

Lì fiorisce il cuentapropismo, la civiltà del lavoro autonomo e langue il gettito delle imposte. Francia e Italia non sono troppo diverse, quanto a popolazione, dimensioni del pil nazionale e procapite. Ma chiun­que abbia a che fare con il mondo del lavoro francese sa che i salari d’in­gresso dei giovani sono il doppio di quelli italiani. Un ricercatore qui pren­de si e no mille euro, in Francia 2500. Un posto annuale di ricercatore post­doctor ora assegnato ad una mia ricer­ca dalla Unione europea, è finanziato con 45.000 euro l’anno. Bisogna to­gliere i contributi sociali e le imposte, ma restano sempre 2500 euro al mese. Anche l’Europa si rifà alla pratica francese, non a quella nostrana. Perché è possibile ai francesi, con un pil poco più grande di quello italiano, finanzia­re un sistema sanitario nazionale di prima qualità, che provvede gratis an­che le cure dentistiche, dedicare cor­posi stanziamenti alla difesa del paese con altrettante commesse alle indu­strie di punta nazionali, dare somme dignitose alla ricerca e ai ricercatori sì da far restare il paese all’avanguardia della scienza mondiale, e in più spen­dere in consumi e investimen­ti pubblici assai più di noi? Vale la pena chiederselo, in questo tempo di angu­stia per l’Italia, quando ogni giorno i mezzi di informazione ci danno l’annuncio di una nuova disfatta sul fronte econo­mico e sociale.

La risposta non è difficile. E attiene proprio alla struttura econo­mica e occupa­zionale dei due paesi. In Francia ci sono molte grandi e medie imprese e tante piccole imprese. Ma pochi lavoratori autonomi, come ab­biamo visto. Da noi è il contrario. La pressione fiscale è simile nei due paesi. Per chi paga le tasse ovviamente. Qui viene il problema. Da noi le tasse le pagano in meno che in Francia. Esiste il sommerso, del quale anche assai di recente il nostro presidente del consiglio, quando gli resta il tempo tra un corteggiamento di presidentesse straniere e l’altro, vanta i meriti, perché terrebbe a galla il pae­se, mentre le attività ufficiali languono. Autonomi e sommersi, ovunque nel mondo, sfuggono molto bene alle premure dell’agente del fisco. E’ dun­que bene favorirne non la fioritura ma assecondarne la scomparsa. E così è avvenuto in Francia e nel resto del­l’Europa civile. Le bancarelle, che a Parigi vendono solo libri usati sulla ri­va sinistra della Senna, da noi se con­tinua così venderanno tra poco anche automobili e pezzi di ricambio, accre­scendo ulteriormente la soddisfazione del presidente del consiglio, ma ren­dendo ancor più acceso il rosso che i nostri conti pubblici esibiscono. Ma non è con i bancarellari che bi­sogna prendersela. L’evasio­ne fiscale, laddove i redditi non sono di lavoro dipendente, è facile in tutti i settori.

Ed è per la pertinace e cre­scente evasione che i nostri go­verni, allo scopo di trovare la copertura a spese pubbliche che sono, comparativamente con paesi a noi simili, tutt’al­tro che folli, hanno dovuto ri­correre a continue e pesanti emissioni di debito pubblico e poi anche alla vendita degli ar­genti di famiglia. Esiste anche una giustificazione ideologica per la privatizzazione del pa­trimonio e delle attività dello dello stato per chi non aderisce all’i­deologia del pensiero unico, ed è neu­trale rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione e della ricchezza naziona­le, in base alla teoria secondo la quale non importa di che colore sia il gatto, ma è importante che sappia prendere i topi; è difficile persuadersi dei meriti di una politica che ha privatizzato la gran parte dei fornitori di grandi servizi a rete trasformando le società pri­vate che li esercitano in gi­ganteschi debitori interna­zionali, incanalandone al­lo stesso tempo i profitti verso le holding dei pro­prietari, con assai scarsi vantaggi per i consumato­ri. Con la vendita del patri­monio pubblico lo stato si è procurato i mezzi che il gettito delle imposte non gli concedeva e che gli oc­correvano per fornire ai cittadini servizi appena decenti. E per gestire il suo gigantesco debito pubbli­co, così mettendo in moto un circolo vizioso dal qua­le sarà difficile uscire. An­diamo avanti con i con­fronti tra Italia e Francia. Il gettito dell’Iva, che in en­trambi i paesi ha un’ali­quota uguale, è assai più alto in Francia su un volu­me d’affari di poco supe­riore. Lo stesso vale per la tassazione diretta delle imprese, I’Irpeg. La tassa­zione diretta delle fami­glie, invece, I’Irpef, rende di meno in Francia che da noi. Perché oltralpe molte sono le detrazioni per fa­miglie numerose, povere, e così via. Il sistema fiscale è dunque più equo in Francia, ma rende allo sta­to di più e gli permette di fornire ai cit­tadini provvidenze e servizi maggiori che da noi, esercitando una perequa­zione sociale.

Queste sono considerazioni ma­croeconomiche. Ma sembra proprio che la macroeconomia sia poco gradita al governo italiano attuale. Lo stes­so giorno in cui si apprende che i con­sumi sono diminuiti del 3,4%, caso unico nella storia repubblicana, la vera notizia è che il presidente del consi­glio smentisce di essere interessato al­la scalata della Rizzoli. Mentre il resto dei ministri e sottosegretari è impe­gnato nella vendita, cartolarizzazione, alienazione, di beni pubblici e in altre incombenze di tipo chiaramente mi­croeconomico, l’intero paese, con in testa la sua classe politica, si appassiona intanto alla com­pravendita in corso di buona parte del sistema bancario. Se si aggiunge il matrimonio di qualche illustre calciatore e il dibattito sul relativismo e la vi­ta dell’embrione, resta assai poco tempo agli italiani e a chi li governa per occuparsi di ma­croeconomia. Ma la caterva di dati pessimi che ci rovina ad­dosso giornalmente indica che la disciplina inventata da Lord Keynes dovrebbe essere al centro dei pensieri. II malfun­zionamento di una economia lasciata a se stessa dovrebbe mostrare che non basta che ognuno si occupi degli affari suoi perché il paese fiorisca. Gli italiani sono maestri in questo, ma non sembra ne sia risultato un incremento del benes­sere, se non forse di quello di una cer­chia ristretta di persone. Anzi, da quando il monito ufficiale ai cittadini è divenuto quello di badare ai propri af­fari, il regresso economico e sociale del paese è accelerato e la distribuzio­ne del reddito e della ricchezza è peg­giorata.

Invece di annunci di politica ma­croeconomica piovono notizie relati­ve agli acquisti e vendite di beni e ser­vizi da parte del presidente del consi­glio e di alienazioni del patrimonio pubblico. Forse la Lega, con la sua ru­stica franchezza, ha indicato nei gior­ni scorsi la strategia di riserva, alla quale si ricorrerà quando il tourbillon delle notizie non basterà più a disto­gliere gli italiani dalle loro sventure macroeconomiche. Forse l’Argentina è considerato il nostro vero bench­mark: svalutazione, uscita dall’euro e riduzione del valore del debito pubbli­co. II default come unica politica economica adatta ad una struttura indu­striale che non vuole fare il salto qualitativo ma solo sopravvivere ancora quel tanto che basti per imbucare un bel pò di miliardi oltre frontiera o per investirli nelle case svendute dal patri­monio pubblico. Se si guarda indietro, si vede che nel nostro paese si alterna­no, dal 1860, fasi argentine e fasi euro­pee. Ora pare che la fase europea sia vi­cina al termine. In passato abbiamo sempre trovato, da Sonnino e Luzzatti a Ciampi e Prodi, qualcuno che ci ha riacchiappato per i capelli e ricondot­to, calcianti e strillanti, in Europa. Chi sarà capace di farlo ora, prima che il ci­clo si trasformi irreparabilmente in precipitoso avvitamento verso impro­babili agganciamenti al dollaro?