Tra i dannati del carcere Supermax

Youngstown, Ohio, già capitale dell’acciaio, icona della deindustrializzazione americana. Nella sede del sindacato dei Teamsters, i dipendenti della Northeast Ohio Correctional Facility raccontano come hanno deciso di iscriversi al sindacato. Lavorano in un carcere privato, proprietà della Correction Corporation of America (la maggiore azienda del settore, con sessanta prigioni negli Stati Uniti, in Australia e in Europa). Parla uno grosso il doppio di me, un tatuaggio di una squadra di football su braccia dal diametro inusitato che sbucano dalla T shirt senza maniche. “Siamo quasi tutti ex operai siderurgici. Io ho fatto ventotto anni in acciaieria; quando ci hanno licenziato, sono andato a insegnare il mestiere di elettricista ai detenuti. Il carcere privato dà lavoro, è un’occasione per la città, per me è stato una finestra di opportunità.”

Le finestre del carcere statale di massima sicurezza di Youngstown, detto Supermax, sono strette feritoie oblunghe verdi lungo una facciata cieca di mattoni rossi, su un prato verde oltre una rete alta e ricurva. Dentro, sembra un ospedale, lindo e silenzioso salvo lo sbattere di porte telecomandate, telecamere onniscienti, sorveglianti invisibili nelle gabbie scure di vetro. Ospita 388 detenuti, “i più indisciplinati e distruttivi” spediti lì dalle altre carceri dello stato. Per ventitre ore al giorno stanno in celle di tre metri per due, senza mobili. Per un’ora, uno per uno e senza incontrarsi, possono uscire con le manette agganciate alla vita e le catene ai piedi, almeno due guardie a fianco, e fare cinque metri per trascorrere la “recreation” in una gabbia di vetro di due metri per tre, con dentro solo due attrezzi ginnici. Ho pensato che impazzirei a doverci stare un’ora chiuso dentro da solo.
“Non è deprivazione sensoriale totale” – spiega vicedirettore; “possono parlare fra loro da cella a cella, scrivere (ma c’è un limite alla carta che possono tenere), vedere la televisione” – su appositi televisori trasparenti in modo che non ci possano nascondere niente dentro. Sentiamo voci, grida, echi. “Alcuni gridano per sentirsi da una cella all’altra”, dice un guardiano, “altri gridano e basta.” Fanno corsi di alfabetizzazione, ognuno in cella con la TV a circuito chiuso; l’insegnante fa fare loro gli esercizi attraverso lo spioncino dietro la porta sbarrata. Non sono permesse immagini alle pareti: “non devono poter addomesticare lo spazio.” L’American Civil Liberties Union ha fatto causa per trattamento inumano e incostituzionale; amabilmente, il vice-direttore dice che “tutti possono dire la loro in questo meraviglioso paese.” E’ la banalità pervasiva dell’autocompiacimento nazionale, ma stride assai sulla porta di un carcere.

Università di Youngstown, seminario con Staughton Lynd, autore di libri importanti, avvocato, protagonista del movimento operaio e dei diritti civili, agitatore indomabile, e con lo storico Marcus Rediker. Dicono: dobbiamo andare oltre la definizione tradizione di classe operaia, legata alla fabbrica, stabile, essenzialmente bianca, e recuperare un concetto più ampio di proletariato nel senso etimologico, lumpen e detenuti compresi. E’ qui che si sono verificati storicamente i momenti più intensi di conflittualità e di unità interrazziale, a partire dal processo stesso di formazione dell’America fin al ‘600. Forse romanticizzano un po’. Ma Staughton Lynd fa l’esempio di George Skatzes, protagonista della più lunga rivolta in un carcere americano, Lucasville, Ohio, 1993. Era un militante della Aryan Brotherhood, setta razzista diffusa nelle prigioni (dice Lynd: “guardatela così: la maggioranza dei detenuti, e molti secondini, sono neri; i detenuti bianchi si convincono di essere una minoranza che si deve proteggere…”)

Appena scoppiata la rivolta, i neri vanno da una parte e i bianchi dall’altra, si guardano in cagnesco, si è sull’orlo della guerra razziale. Ma due leader dei neri vanno da Skatzes e gli dicono: il nemico è un altro, dobbiamo stare insieme. Insieme, loro e Skatzes diventano i portavoce della rivolta, e pagano con botte, persecuzioni, processi senza garanzie, punizioni (ventitre rivoltosi di Lucasville sono nel Supermax di Youngstown). Skatzes diventa un esempio di come, nell’unità delle condizioni materiali, è possibile uscire dal razzismo; simmetricamente, Rediker ricorda le chiare posizioni anti-nazionaliste dell’ex pantera nera Mumia Abu Jamal (e io colgo il momento per raccontare, fra vibrazioni di solidarietà, di Silvia Baraldini).
Dice Staughton Lynd: quando parlate col sindacato dei lavoratori del carcere provate a pensarli come lavoratori che fanno un lavoro difficile e pericoloso. E’ stato lui, con un lungo lavoro non facile, a organizzarli e a portarli ai Teamster. E loro spiegano: “questo doveva essere un carcere di sicurezza medio-bassa; ma ci siamo trovati, senza addestramento e mentalità adeguati, davanti a detenuti pericolosi, assassini, gangster, spacciatori. Risultato: nel primo anno ci sono stati venti accoltellamenti, due omicidi e un’evasione di massa” (compresi cinque condannati per omicidio). “Adesso il contratto con Washington non è stato rinnovato, e parlano di chiudere anche il carcere; guarda caso, hanno cominciato a parlare di chiusura dopo che ci siamo iscritti al sindacato. Il carcere sarebbe ancora produttivo: non mancano certo i detenuti in America, Hawaii ha un surplus di cinquecento carcerati, potrebbero mandarli qui.”

I detenuti non sono neanche merce, sono la materia prima che garantisce i profitti dell’azienda e il posto ai dipendenti. Dico al sindacalista dei Teamsters: voi lottate per i diritti di questi lavoratori, ma questi si fondano sulla negazione di diritti ad altri proletari in un’America sempre più carceraria. Annuisce, ma non sa che dire.
Il 7% della crescita economica nazionale sta nell'”industria carceraria.” In Ohio, i detenuti sono passati in vent’anni da 11.800 a 48.000 (da 150 a 450 su 100.000 abitanti); la spesa si è moltiplicata per sette (è 1.290 milioni di dollari); le carceri erano 8, sono 34, di cui tre private, con dodicimila nuovi posti di lavoro (l’acciaio ne ha persi oltre cinquantamila, assai più ben pagati, solo a Youngstown). Un gruppo indipendente, “Policy Matters Ohio” giudica due carceri private su tre un disastro totale; la terza, Lake Erie, sta in piedi perché, su precise direttive, lo stato manda lì soltanto “detenuti non fumatori, con minori problemi disciplinari, sanitari e mentali” lasciando nelle carceri pubbliche quelli che hanno più bisogno di sorveglianza e di cure mediche.

A Richmond (pubblico), la media di visite mediche per detenuto, e dei costi relativi, è di ottanta volte superiore a quella di Lake Erie (privato). Come sempre, profitti ai privati, costi e problemi al pubblico; per di più, lo stato fornisce gratuitamente ai privati una serie di servizi (tra cui addestramento e documentazione) che gravano sul bilancio pubblico. Fanno fare ai detenuti tutti i lavori interni al carcere, a sette centesimi l’ora, nessuno prende più di 21 dollari al mese. Le aziende carcerarie sono un oligopolio, che può violare arrogantemente gli impegni presi in termini di qualità dei servizi; e se fanno bancarotta, tutto si scarica sul settore pubblico. C’è una causa in corso su chi deve pagare la spese per la ricerca dei sei evasi da Northeast. I dipendenti del carcere smettono di parlare dei detenuti come merce e materia prima solo quando ne parlano come antagonisti. “Questa è gente fantastica”, “sono ingegnosissimi”: introducono armi e droga, creano armi letali da graffette e spazzolini da denti, mantengono reti di comunicazione da un carcere all’altro, hanno soldi per comprarsi i guardiani. L’ammirazione è funzionale alla drammatizzazione delle proprie condizioni di lavoro. Lamentano la mentalità militaresca della compagnia, che ostacola la sindacalizzazione con ricatti, minacce, tentativi di corruzione; ma aggiungono che un po’ di militarismo coi detenuti ci vuole. Un secondino nero, maestoso come un predicatore, con un bambino delizioso in braccio, racconta di esse stato morso, preso a calci, coperto di feci e di urina. L’elettricista dice: “la mia incolumità dipende dal fatto che per prima cosa impongo il rispetto.”

“Respect”, come insegna Aretha Franklin, è una parola chiave. Domando a un gruppo di infermiere in sciopero (ne parlerò in un prossimo articolo) che cosa chiedono, e rispondono: rispetto – il rispetto negato dalle le aziende che licenziano dopo trent’anni di “fedeltà”, negato dall’immaginazione diffusa che vede i disoccupati come falliti e buoni a nulla, gli operai come scimmioni obsoleti ruttanti birra, i lavoratori dei servizi come pezzenti senza arte né parte. Il carcere offre l’autorità per esigere questo rispetto mancato, necessario, e repressivo.
Nella Lettera Scarlatta, Nathaniel Hawthorne scrive: “I fondatori di qualunque Utopia, quale che fosse il loro sogno di umana felicità e virtù, hanno sempre trovato fra le loro prime necessità quella di designare una parte del suolo vergine per un cimitero e un’altra per una prigione.” Ricordo quando, alla delegazione del Manifesto che tornava dalla Cina della rivoluzione culturale, chiedevamo ingenuamente se laggiù ci fossero ancora le prigioni (oggi la Cina ha battuto il record delle esecuzioni capitali, ventinove in un giorno). Ma quello che Hawthorne pensava come pessimistico limite all’utopia si avvia a diventare esso stesso utopia.
Il carcere non è più pensato come “male necessario”, strumento di un controllo sociale sempre più punitivo, ma come bene positivo: “finestra di opportunità” per i singoli, modello di sviluppo per le regioni devastate dalla deindustrializzazione – dall’ex siderurgica Youngstown all’ex minerario Kentucky, discarica a cielo aperto di rifiuti solidi metropolitani seppelliti nelle miniere svuotate e di rifiuti umani nelle prigioni: dall’interno dello stato di New York a Laredo al confine col Messico. Insieme agli armamenti, è la sola spesa pubblica a cui nessuno obietta – guerra interna e guerra esterna, sinistro welfare: il carcere è un “servizio sociale” dice il vicedirettore di Supermax, è “il più vasto progetto di edilizia per alloggi popolari d’America” mi dice qualcuno.

Ed è un’utopia/distopia tecnologica materializzata: nella sua pulita follia, Supermax sembra Fahrenheit 451 di Truffaut, opera perfetta di sapere sociale accumulato per rinchiudere la gente invece che per aiutarla. L’aria è pulita, è vietato fumare. Il sogno americano e l’incubo ad aria condizionata di Henry Miller si somigliano sempre più.