Tra Giap e il Wto

Il Vietnam è diventato ufficialmente il 150° membro del Wto, la World Trade Organization. Trent’anni dopo la l’unificazione, il Vietnam cessa di essere una guerra e diventa un paese, da osservare non con la rigidità dello schieramento ma con la lente dell’economia. Molti segnali già indicavano il passaggio: il 60% della popolazione è nato dopo il 1975, gli stili di vita sono meno austeri ed inclini al consumo, lo skyline delle città mescola bene le nuove costruzioni con l’elegante architettura francese.
L’ingresso nel Wto è un punto di arrivo di una decisa svolta economica. Dalla fine degli anni ’80 il Partito comunista ha lanciato una politica di valorizzazione dell’iniziativa privata e di apertura all’estero che ha dato risultati spettacolari. Il Pil è cresciuto negli ultimi anni dell’8%, a tassi inferiori solo a quelli cinesi. Le condizioni di vita sono migliorate con risultati sorprendenti: se ancora oggi il reddito pro capite è ancora di 620 dollari all’anno, la percentuale della popolazione che vive sotto il livello di povertà è scesa sotto il 20%, rispetto al 58% del 1993. I successi diplomatici sono stati conseguenti: il Vietnam è entrato a far parte dell’Asean (l’Associazione dei paesi del sud est asiatico, originariamente un bastione anticomunista) ed ha stabilito relazioni amichevoli con gli Usa, il più importante partner commerciale.
L’adesione è dunque un tentativo di accelerare un cambiamento già avviato. È il segnale che l’apertura del paese non è più in discussione e che il compito è misurare l’inserimento del Vietnam nell’agone internazionale. Il pericolo principale è la divisione del paese tra chi si inserirà con profitto nella concorrenza internazionale e chi non riuscirà ad intercettare i vantaggi della globalizzazione. Quando le autorità vietnamite affermano che il loro paese è ancora in via di sviluppo, non lo fanno solamente per strappare migliori condizioni al Wto. Affermano una verità oggettiva: due decenni di ininterrotto sviluppo hanno solo parzialmente modificato un panorama produttivo ancora scarsamente industrializzato, un’agricoltura poco meccanizzata, un’economia non monetizzata, un settore dei servizi con molti margini di miglioramento.
Un tale sistema economico deve essere protetto con dazi, con limiti all’intervento straniero nelle industrie strategiche, con una differente etica da lavoro. Queste barriere sembrano tuttavia aver ingessato il paese, impedendogli un fruttuoso scambio con l’estero. È insomma presente la drammatica consapevolezza che il Vietnam per progredire debba allentare le restrizioni, con il pericolo che L’ apertura possa acuire le contraddizioni tra la città e la campagna, tra la costa e le regione montuose dove vivono le minoranze etniche. Alla fine ha prevalso l’audacia di una scommessa piena di implicazioni.
Il primo fenomeno sarà l’aumento degli investimenti diretti esteri che trasformeranno presto il paese in uno vasto opificio mondiale. Le motivazioni sono intuibili: produrre costerà meno perché cadranno i dazi sulle parti importate, il settore dei servizi sarà esposto alla concorrenza, il mercato interno allargherà la sua base, il «business environment» sarà più garantito. Il secondo, in sequenza, sarà l’aumento delle esportazioni, soprattutto di beni a maggiore valore aggiunto ma pur sempre con bassi costi di produzione. Ne risulterà un maggior sostegno alla domanda globale e dunque alla crescita. Già oggi il Vietnam è uno dei maggiori produttori mondiali nel tessili e calzature: essere membro del Wto garantisce che l’imposizioni di dazi, in ossequio ai principi del libero mercato, sarà difficile. Inoltre il paese ha costi di produzione ancora più ridotti di quelli cinesi, vantando al tempo stesso una forza lavoro efficiente.
La terza conseguenza è quella più densa di incognite. Verrà infatti registrata una crescita del settore privato, sia nel campo della produzione che dei servizi. Avrà luogo una gestione dell’economia meno ideologica e tesa al rispetto dei parametri di efficienza. Aumenterà quindi il ruolo dei partner stranieri, proprio per la loro maggiore esperienza in settori cruciali. Saranno creati nuovi posti di lavoro nel settore dei servizi, nella meccanica, nell’information technology. Contemporaneamente dovrà radicalizzarsi la ristrutturazione di impianti industriali che non sono fonte di profitto e che non potrebbero sopportare la concorrenza internazionale. Si tratta quasi sempre di grandi complessi di proprietà statale, mantenuti in vita da sussidi governativi e da un mercato senza rischi. Questa operazione non sarà indolore e troverà ostacoli dalla parte più conservatrice della dirigenza. La ricchezza del paese dovrà crescere in armonia, creando differenze sociali che gli diano dinamismo ma non lo destabilizzino. I governanti hanno dunque di fronte una scelta insidiosa di strategia: calibrare un aumento della ricchezza che renda meno dolorosi gli inevitabili sacrifici. L’adesione al Wto è strumentale a questa politica. Si tratta in sostanza di ampliarne gli effetti innovativi senza che questi colpiscano una struttura economica ancora fragile.